Il “mantra” nell’Ue in queste ultime settimane è “Europa a più velocità”. L’idea, tutt’altro che nuova, è stata ufficialmente sdoganata dalla Merkel al vertice di Malta agli inizi di febbraio. Ne accenna anche il recente Libro bianco sul futuro dell’Europa, che, però, si è limitato a includerla tra i cinque possibili scenari, senza darvi particolare enfasi (anche se, a ben vedere, è uno dei soli due concretamente realizzabili). In assenza di altre proposte da presentare alle commemorazioni del 25 marzo per il sessantesimo anniversario della firma dei Trattati di Roma, con sano pragmatismo, i leader di Francia, Italia e Spagna nel vertice di Versailles della scorsa settimana hanno avallato la soluzione. Ma è questo veramente l’uovo di Colombo che ci può consentire di superare il momento di stallo in cui versa l’Unione?E cosa implica?
Come si è detto, l’idea è risalente: di Europa a due velocità si parlò per la prima volta addirittura nel 1975 nel rapporto sullo sviluppo dell’Unione europea predisposto dall’allora premier belga Leo Tindemans. Erano anni difficili quelli – tra crisi economica, valutaria, petrolifera e terrorismo – e dunque le priorità dei leader europei erano altrove. Ne risentiva la costruzione della Comunità europea che stagnava (si parlava di “Eurosclerosi”). Così fu ipotizzato che una pattuglia di Stati avanzasse più rapidamente verso l’obiettivo finale dell’Unione europea. Da allora, l’idea è sempre rimasta parte del dibattito politico-istituzionale: sostenuta dai più pragmatisti e contrastata dai federalisti duri e puri. Nel frattempo, però, si è passati dal parlare di Europa a due velocità a ipotizzare un’Europa a “più” velocità, anche definita “a geometria variabile” o, con un accento più critico, “à la carte“.
Dalla teoria alla pratica il passo è stato breve: il Trattato di Maastricht, per esempio, ha previsto che gli Stati che non avessero soddisfatto i criteri di convergenza (e quelli che non lo volevano) non avrebbero fatto parte dalla costituenda Unione economica e monetaria. E così, solo 11 Stati entrarono inizialmente nell’Eurozona (oggi sono 19). Altri esempi significativi sono gli Accordi di Schengen che, pur essendo stati integrati nel diritto dell’Unione europea, vincolano solo 22 Stati (oltre a 4 Stati non appartenenti all’UE). Infine, anche il cosiddetto Spazio di sicurezza, libertà e giustizia comprende solo 25 Stati (la Danimarca si è chiamata fuori mentre Regno Unito e Irlanda scelgono di volta in volta se adottare le misure in questione).
L’Europa a più velocità nasce però formalmente con il Trattato di Amsterdam nel 1997, che ha introdotto la procedura di cooperazione rafforzata, ulteriormente semplificata dal Trattato di Nizza nel 2001. Così nacque la possibilità per un gruppo, anche di soli nove Stati, di avviare (previa autorizzazione del Consiglio) una più stretta integrazione settoriale, a condizione che si lasciasse la porta aperta agli altri Stati per aderirvi in un secondo tempo. Gli esempi di cooperazioni rafforzate sono però ancora limitati: divorzio tra coniugi di nazionalità diversa, Tobin Tax e brevetto europeo. Con il Trattato di Lisbona si è poi prevista la possibilità di una cooperazione strutturata permanente nel settore militare.
Come molti (a partire da Juncker e Gentiloni) hanno rilevato in questi giorni, dunque, l’Europa già procede a più velocità. E allora perché dovrebbe essere questa la strada da seguire per uscire dalle secche? La risposta, implicita, è che si vuole cambiare passo sul piano politico, non giuridico. Non si ipotizza, infatti, alcuna modifica dei Trattati che semplifichi ulteriormente la procedura di cooperazione rafforzata né si contempla di creare un gruppo di testa all’interno dell’Eurozona. Finora, le scelte erano state (quasi sempre) “inclusive”, volte cioè a cercare un compromesso per portarsi dietro anche i paesi più riluttanti, a costo di subire rallentamenti e un livellamento verso il basso della normativa. Così facendo, però, si finisce per avvantaggiare i partiti populisti che hanno buon gioco a far valere la paralisi decisionale dell’Unione e la bassa qualità della normativa adottata (troppo spesso di dettaglio).
Il messaggio che ha lanciato la Merkel è molto chiaro: anziché cercare di competere con i partiti antieuropeisti sul piano delle critiche all’Unione per le politiche di austerity o per l’overregulation, cerchiamo rapidamente una maggiore integrazione, con chi ci sta, in alcuni importanti settore chiave nei quali l’azione non può che essere collettiva quali difesa, sicurezza e migrazione. Il rischio, ovviamente, è di una maggiore divisione in Europa, sulla direttrice nord/sud o est/ovest. Non c’è alcun intento di emarginare alcuni paesi (come temono taluni), ma ci attendiamo maggiore fermezza per comportamenti non in linea con la partecipazione all’Ue. Polonia e Ungheria sono avvertite. Del resto, già in passato, per superare le resistenze della Polonia alla firma del Trattato di Lisbona si dovette minacciare di procedere alla convocazione di una conferenza intergovernativa alla quale essa non era invitata. Solo dinanzi al rischio di esclusione, fece un passo indietro e tornò al tavolo dei negoziati.
Per ora l’Europa a più velocità è ancora uno slogan. Resta da vedere se ai proclami in occasione dell’anniversario della firma dei Trattati di Roma seguiranno i fatti e ci sarà un’accelerazione nel senso indicato. D’altro canto, continuare sulla strada odierna vuol dire rassegnarci a una politica di piccolo cabotaggio fino a quando altri partiti antieuropeisti andranno al governo innescando ulteriori recessi. La giusta risposta è che c’è bisogno di più Europa (e meno regolamentazione europea) con chi è disposto a proseguire su questo cammino.
Alberto Saravalle