Mai sprecare una buona crisi: l’Europa al bivio
21/05/2013 di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro.

“Non ci si può permettere di sprecare una seria crisi… è un’opportunità di fare cose che non si pensava di poter fare prima”. Questa famosa citazione di Rahm Emanuel, già capo di Gabinetto di Obama alla Casa Bianca, sembra calzare a pennello alla situazione dell’Eurozona che oggi si trova in mezzo a una recessione che non accenna a diminuire.

I numeri sono implacabili: settimo calo consecutivo del Pil italiano; secondo trimestre in rosso per la Francia; Spagna, Grecia e Portogallo e Cipro, nonostante i salvataggi, sempre in flessione; la stessa Germania in frenata e anch’essa a rischio decrescita. Per non parlare poi dell’emergenza disoccupazione che ha ormai toccato il 12,1% nel nostro paese.

Benché si sia riaperto il dibattito in Europa sull’opportunità di cambiare rotta abbandonando l’austerity ad ogni costo, il rischio è che la crisi vada sprecata, senza interventi strutturali. Come avevamo indicato la scorsa settimana, da più parti ormai si chiedono policies più orientate alla crescita e la stessa Germania, in attesa delle elezioni, lascia intravedere timide aperture. Hollande, con il paese in recessione e la popolarità ai minimi, ha lanciato l’idea di un governo economico dell’Eurozona accettando, per la prima volta, una significativa riduzione della sovranità nazionale. Quale migliore occasione per fare un passo deciso verso una nuova governance europea?

E invece non si riesce a progredire sulla strada dell’integrazione. Perché? Le cause sono molte, ci limiteremo a menzionare le principali: la crisi ha accentuato gli egoismi nazionali; manca una vera leadership (dopo la rottura dell’asse franco-tedesco, l’unico che ha dimostrato visione e tenacia è Mario Draghi); l’Europa è affetta da un’incapacità cronica di decidere e i tempi per l’adozione delle norme sono troppo lunghi; l’iper-regolamentazione di dettaglio alimenta l’euroscetticismo. Ma soprattutto l’Unione è sempre più lontana dalla gente.

Negli oltre 50 anni di vita dell’Europa, la progressione è stata tutt’altro che lineare. A periodi di grande e rapido avanzamento, ne sono seguiti altri di stallo. Così, alla graduale caduta delle barriere doganali negli anni ’60 hanno fatto seguito i difficili anni di Eurosclerosi a cavallo degli anni ’70. La costruzione della casa comune è ripartita nella seconda metà degli anni ’80, con la Presidenza Delors e il progetto di dar vita al mercato interno. Dopo il Trattato di Maastricht e la moneta unica di nuovo una battuta d’arresto. La storia recente, infatti, ha visto il fallimento dell’ambizioso progetto di Costituzione europea e il riaffiorare del nazionalismo con la protezione dei campioni nazionali. Il tutto reso ancor più difficile dall’allargamento (da 15 a 27 nell’arco di pochi anni), realizzato senza una previa adeguata modifica dei meccanismi istituzionali.

L’evoluzione complessiva è stata però possibile grazie a un sano pragmatismo, aggregando il consenso non solo dei governi, ma dei popoli d’Europa, intorno a poche e semplici idee forti. Prima la creazione del mercato comune con la graduale abolizione dei dazi doganali e la liberalizzazione della circolazione delle persone e dei servizi (per i capitali si è dovuto attendere la fine degli anni ’80). Poi la realizzazione del mercato interno e, infine, l’adozione dell’Euro.

Il progetto di Costituzione europea (al di là della sua valenza retorica) era, in realtà, assai lontano dalle istanze della gente, risolvendosi in una serie di tecnicismi giuridici assai difficili da spiegare ai cittadini europei. Così è stata affossato, senza molti rimpianti, dai referendum francese e olandese del 2005. La storia di questi ultimi anni non è molto diversa: il fiscal compact è stato vissuta come una imposizione dei paesi del nord a danno della crescita.

Con l’Unione bancaria¸ per quanto necessaria, l’Europa sembra interessarsi più delle sorti delle banche che dei loro clienti, e va a incidere su un tema comunque lontano dalla sensibilità dei cittadini. Alla gente si può chiedere la facilità di spostarsi da un paese all’altro, senza subire restrizioni valutarie e anzi usando la stessa moneta a Messina e a Copenhagen: ma non si può pretendere che ci si appassioni alla discussione sull’allocazione del rischio nel business del credito!

Eppure oggi, paradossalmente, la crisi ci offre una nuova opportunità di ripartire rapidamente nella costruzione dell’Europa che non possiamo permetterci di perdere. La paura è il collante che può consentire di fare passi avanti inimmaginabili fino a pochi mesi fa. Lo dimostra la proposta di Hollande. Da un lato, gli Stati si trovano ad affrontare un fenomeno di portata globale che non sono in grado di contrastare seriamente agendo in maniera scoordinata. Dall’altro lato, i cittadini, preoccupati per il futuro e i propri risparmi, possono trovare nell’Europa una sorta di ultimo bastione.

Per superare lo stallo occorre muovere verso ulteriori cessioni di sovranità degli Stati, accompagnate da riforme istituzionali, nelle aree che contano di più: economia, fisco, tesoro, infrastrutture. Il senso delle riforme deve essere quello di spostare a livello comunitario tutte quelle politiche la cui dimensione esula, necessariamente, da quella nazionale. Esattamente come ci indigniamo quando un piccolo comune blocca una infrastruttura di grande valenza, dovremmo guardare con sospetto ai bastoni messi dagli Stati nelle ruote dell’integrazione.

Per esempio, non possiamo pretendere di godere dei benefici di una valuta forte e stabile senza assumerci alcuna responsabilità in merito alla solidità delle economie sottostanti. Non possiamo pretendere che l’Europa compri i prodotti tipici italiani, e poi scandalizzarci se vengono trasportati da camionisti romeni. Su questa base, sarà più facile ragionare su una più efficace distribuzione dei rischi sovrani , o maggiore tolleranza per deficit di breve termine finalizzati a favorire l’occupazione e la crescita.

Meno vicina ai bisogni della gente e pertanto più difficilmente realizzabile – almeno nell’immediato – è l’integrazione dei settori della difesa, sicurezza, politica estera e immigrazione che il Ministro Bonino pure invocava nell’intervista al Corriere della Sera di domenica.

L’Europa deve però riconquistare il respiro delle grandi riforme: l’integrazione economica e la costruzione del mercato unico non dovrebbero essere bloccate da meschinità nazionali, ma è naif pensare di contrastare queste ultime con una proposta europea di basso profilo. Se crediamo che sia importante avere più Europa, dobbiamo anzitutto scommettere (per rubare, cambiandone il significato, lo slogan del Pd) su un’Europa giusta: un’Europa che faccia dissolvere le frontiere interne, e non si risolva in un gioco a somma zero tra gli interessi dei 27. Bisogna creare valore, non redistribuirlo.

In definitiva, l’Europa degli Stati che ha governato in questi anni ha mostrato i propri limiti. Il rischio è che imploda. Solo con una forte spinta in avanti a favore del metodo comunitario – anche con tempi diversi per gli Stati che non sono pronti a fare il passo subito – potrà risollevarsi. L’Europa dei piccoli passi voluta da Schumann non funziona in tempi di crisi eccezionali. A mali estremi, rimedi estremi.

Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro

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