Meloni e Urso ci ripensino: il Fondo sovrano italiano è inadeguato, inutile e perfino dannoso
16/05/2023 di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro.

Posso resistere a tutto tranne che alle tentazioni, diceva Oscar Wilde. L’aforisma sembra applicarsi bene anche al nostro governo che non sfugge alla fatale tentazione di lanciare un fondo sovrano nella quale sono caduti – senza, peraltro, grandi risultati – diversi suoi predecessori. Secondo le anticipazioni del Sole 24 ore, infatti, l’esecutivo sarebbe pronto a costituire un fondo sovrano per il Made in Italy. Si parla di una dotazione di circa un miliardo di euro, messa a disposizione da Cassa depositi e prestiti e forse anche dalle casse previdenziali dei professionisti, per sostenere le aziende strategiche, con particolare riferimento ai settori dell’energia e delle materie prime.

Il provvedimento che sarebbe in arrivo nel CdM di giovedì autorizza il ministero dell’Economia a investire “a condizioni di mercato, nel capitale di imprese nazionali ad alto potenziale o di imprese nazionali che, in ragione della rilevanza sistemica già raggiunta, possono generare importanti esternalità positive per il paese e ridurre i costi di coordinamento tra gli attori delle filiere coinvolte”. Sembra proprio la risposta di destra a quel “Patrimonio Rilancio” che fu lanciato dal governo Conte-2. In quel caso la capienza era però ben superiore: circa 44 miliardi di euro da destinare alla patrimonializzazione delle imprese italiane. Erano le fasi convulse del Covid e si era pronti a tutto per evitare il disastro incombente. L’iniziativa, com’era prevedibile, in concreto ebbe scarso successo e venne successivamente lasciata evaporare da Mario Draghi.

Ci sono diverse ragioni che – secondo noi – dovrebbero indurre la premier e il ministro delle Imprese e del made in Italy, Adolfo Urso, a pensarci due volte: un simile fondo, infatti, sarebbe inadeguato, inutile e perfino dannoso.

I fondi sovrani nascono nei paesi ricchi di risorse quali petrolio e gas (Norvegia, Kuwait, ecc.), come strumento per gestire con un’ottica di lungo termine la rendita mineraria. L’Italia non ha entrate pubbliche legate ai prezzi delle commodity né un surplus da investire. Al contrario, siamo un paese fortemente indebitato che, come dimostra la vicenda del Pnrr, fatica persino a pianificare un ciclo di investimenti alimentato da risorse eccezionali. Queste ristrettezze, a prescindere dal merito degli interventi, fanno sì che la somma che possiamo allocare sia, comunque, inadeguata a perseguire i grandi obiettivi annunciati. Pensare di cavarsela elargendo qualche centinaio di milioni di euro è troppo poco, se con ciò si vuole fare politica industriale e contrastare la fuga delle imprese verso altri Paesi più generosi di sussidi (USA in testa).

Non pare poi che questo strumento serva veramente all’obiettivo dichiarato di “proteggere” o “sostenere” le imprese nazionali (quale che sia il significato di queste espressioni). Se il governo pensa che le imprese “strategiche” (altro termine difficilmente definibile) siano sotto attacco, già dispone di tutti i mezzi per scongiurare l’aggressione: il golden power, a seguito delle numerose modifiche nell’arco degli ultimi anni, si applica praticamente a qualunque settore rilevante e scatta anche per l’acquisizione di partecipazioni di minoranza da parte di imprese extra europee. Peraltro, gran parte delle aziende normalmente indicate come strategiche hanno già lo Stato come azionista e nessuno si è mai sognato di attaccarle, ben sapendo quale sarebbe l’esito. Per averne una recente conferma, basta vedere come è andato a finire il braccio di ferro sulla nomina di Paolo Scaroni all’Enel.

La terza ragione è però quella più rilevante. Se con i capitali del fondo sovrano si cerca di porre rimedio a un problema reale della nostra economia (la piccola dimensione e l’insufficiente patrimonializzazione di molte imprese private) l’investimento pubblico è la risposta sbagliata. Lo Stato è un compagno di strada ingombrante, che a lungo andare chiede sempre più di quello che dà e possiede azioni che non si contano, ma si pesano. Lo si vede dai corsi azionari delle partecipate pubbliche che si scambiano normalmente a multipli inferiori rispetto alle imprese comparabili perché i mercati scontano la non contendibilità del controllo. L’intervento pubblico sembra un modo per eludere alcuni problemi strutturali del paese quali la bassa qualità della pubblica amministrazione, i tempi e le incertezze del sistema giudiziario, il bancocentrismo del nostro sistema creditizio, l’insufficiente spesa in R&S, la poca concorrenza nei servizi, l’eccessiva onerosità del sistema fiscale, ecc.. Se la percezione dei mercati fosse che, anziché affrontare questi annosi problemi (per risolvere i quali abbiamo i denari del Pnrr), il governo cerca di ampliare il proprio peso nell’economia, a pagarne il prezzo sarebbero le imprese più dinamiche.

La destra al governo non dovrebbe cimentarsi nella riproposizione di un nuovo dirigismo né interrogarsi su come portare lo Stato a bordo delle imprese. Dovrebbe fare ciò che la Presidente Meloni ha promesso nel suo discorso di insediamento: non disturbare chi ha voglia di fare.

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