Il Salva Roma è morto, viva il Milleproroghe!
Il decreto predisposto dal Governo per far fronte alla quasi-bancarotta della Capitale è stato bloccato dal Capo dello Stato a causa del clima da “assalto alla diligenza” che si era venuto a creare. Conteneva infatti provvedimenti del tutto incompatibili con gli obblighi di finanza pubblica a cui il nostro paese è soggetto, quali misure volte a proteggere le aziende partecipate dal Comune di Roma da qualunque intervento di risanamento che lambisse i costi del personale. Non mancava, inoltre, una serie infinita di finanziamenti a pioggia per cause del tutto peculiari, dalle lanterne semaforiche ai treni a vapore. Proprio mentre annunciava il ritiro del decreto, però, il Ministro dei Rapporti col Parlamento, Dario Franceschini, ha dichiarato che alcuni di questi provvedimenti sarebbero stati “ricuperati nel decreto Milleproroghe”. Così, in effetti, è accaduto, con la riproposizione delle norme tese a prevenire il fallimento della Capitale.
Il problema è molto più serio di quello che sembra. Non si tratta di un’iniziativa emergenziale legata alla specifica situazione del Campidoglio e delle sue aziende. E’, al contrario, una prassi ormai così comune che neppure ci stupiamo. Da una decina d’anni è invalsa l’abitudine di emanare, negli ultimi giorni di dicembre, un decreto volto a prorogare le scadenze che, per varie ragioni, non è stato possibile rispettare. Eppure, il nome stesso del decreto – il Milleproroghe, appunto – dovrebbe prima facie sollevare molte perplessità.
Questa tecnica legislativa denota l’ennesima contraddizione tra gli obblighi che lo Stato impone ai cittadini e l’esempio che offre: come si può pretendere il rispetto delle scadenze da parte dei contribuenti, quando la PA per prima non rispetta le tempistiche da essa stessa definite? Non stiamo parlando di vicende patologiche, come l’assurda telenovela della tassazione sulla casa che continua a subire modifiche. Facciamo riferimento alla fisiologia di un sistema da tempo ormai incapace di offrire certezze agli operatori economici. E che approfitta sistematicamente di quest’occasione per “nascondere”, tra le pieghe del decreto, misure che con le proroghe nulla hanno a che vedere. Con due paradossi: intanto, come ha scritto Oscar Giannino, “in un paese ordinato e serio, il milleproroghe non dovrebbe esistere, la Corte Costituzionale dovrebbe impedirlo. Per la sua stessa genesi aggira i requisiti costituzionali della decretazione d’urgenza”. E poi, di fatto, la logica del Milleproroghe – specialmente quando viene utilizzato come in questo scorcio di 2013 – da un lato riconduce ogni decisione rilevante alla sola sessione di bilancio, dall’altro estende la sessione di bilancio di almeno due mesi (il tempo per la conversione in legge) durante i quali potrà succedere di tutto. Insomma: il provocatorio invito del Foglio ad abolire il Milleproroghe sembra più che giustificato.
Questa prassi si sovrappone ad altri difetti congeniti del nostro sistema. Uno è la tendenza a emanare decreti “omnibus”, che contengono cioè misure molto eterogenee. Per di più, esse sono largamente incomprensibili ai “profani” a causa dei continui rinvii a normative precedenti, reiterate, abrogate o modificate dalle nuove norme. La complessità aumenta la probabilità che delle “manine” inseriscano nei decreti (o nelle leggi di conversione) misure puramente assistenziali e prive di giustificazione alcuna. Come abbiamo già evidenziato, non basta fare buone leggi, occorre anche che siano chiare. In un paese normale ci si dovrebbe attendere dal governo trasparenza e discussione pubblica dei provvedimenti, non tentativi, più o meno maldestri, di adottare norme incomprensibili per fini spesso inconfessabili. Discussioni magari corredate da analisi d’impatto della regolamentazione, peraltro obbligatoria per legge ma sistematicamente ignorata.
Un altro difetto congenito è il gap tra la comunicazione dei provvedimenti e l’effettiva disponibilità degli articolati. Facciamo un esempio: il Consiglio dei Ministri del 13 dicembre ha approvato – secondo un comunicato disponibile sul sito di Palazzo Chigi – un decreto e un ddl per l’attrazione degli investimenti esteri in Italia. Il comunicato fornisce molti e utili dettagli. Non ci interessa, qui, il merito, quanto il metodo: l’intero dibattito pubblico si è basato unicamente sulle anticipazioni alla stampa. Il testo del decreto, infatti, è stato reso disponibile solo il 24 dicembre (11 giorni dopo) con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Nel momento in cui scriviamo questo articolo (28 dicembre, 15 giorni dopo l’annuncio) il ddl non è ancora disponibile.
Tutto ciò inquina il dibattito e facilita un utilizzo opportunistico degli strumenti normativi. Non è, naturalmente, un’esclusiva italiana. Gli anglosassoni hanno un termine suggestivo per indicare i provvedimenti “assistenzialisti”: “pork barrel legislation“, un’espressione che sembra risalire addirittura al XIX Secolo. Non esistono, di fatto, metodi o procedure per impedire che questo genere di misure venga approvato. L’unico strumento di autodifesa dei contribuenti è la costante vigilanza. L’organizzazione americana Citizens Against Government Waste, per esempio, ha proposto sette criteri utili a identificare le norme con le maggiori probabilità di rientrare in questa categoria. Alcuni di essi sono strettamente legati al contesto istituzionale statunitense, ma altri si applicano perfettamente al nostro caso: possono definirsi “pork barrel” i finanziamenti attribuiti al di fuori di contesti competitivi, qualora eccedano significativamente i limiti del bilancio, non siano preceduti da estensive audizioni pubbliche in Parlamento e favoriscano dei beneficiari facilmente identificabili.
Forse è troppo tardi per evitare che il Milleproroghe divenga anche quest’anno il ricettacolo di provvedimenti voluti dal partito della spesa o dalle più svariate lobby. Siamo rassegnati a trangugiare anche questa dose di “pork“. Fortunatamente, Letta sembra consapevole di questo problema. Nella conferenza stampa sul decreto, ha dichiarato: “nel 2014 dobbiamo avere una riforma del procedimento legislativo che tenga contro anche dell’ingorgo che c’è stato a dicembre”. Sarebbe davvero un bell’inizio d’anno, se l’esecutivo si impegnasse a fare di questo decreto l’ultimo della sua schiatta. Ciò dipende in parte dai regolamenti parlamentari, ma molto di più dalla volontà politica di chi occupa pro tempore Palazzo Chigi. Per parafrasare Samuel Beckett, deve pur esserci un’ultima volta anche per le ultime volte.
Carlo Stagnaro e Alberto Saravalle