“Se volete delle buone leggi, bruciate quelle che avete e fatene di nuove“. Forse la caustica battuta di Voltaire non è generalizzabile, ma ci sono buone ragioni per pensare che valga per la tassazione sulla casa nel nostro paese. La telenovela dell’Imu – avviatasi con l’imposizione, da parte di Silvio Berlusconi, dell’impegno ad abolirla quale condizione per partecipare alla grande coalizione – sembra oggi prossima a concludersi, man mano che gli ultimi punti lasciati aperti dalla legge di Stabilità verranno sistemati. Eppure, non si ha la sensazione di un approdo definitivo: ci sono ancora troppe variabili, e i dubbi si spingono ben al di là della mera determinazione delle aliquote. Almeno un elemento positivo, però, sembra farsi strada: la netta distinzione tra Tasi e Tari – l’una volta a finanziare i servizi indivisibili, l’altra per i rifiuti e i servizi a domanda individuale – potrebbe dare l’avvio a un ripensamento complessivo delle finanza pubblica locale, suscettibile di introdurre razionalità e responsabilità che, oggi, proprio mancano.
La questione può essere esaminata da tre punti di vista. In primo luogo, si tratta di definire una volta per tutte, in modo ragionevole, l’imposizione sul patrimonio immobiliare. Storicamente il nostro fisco è stato molto poco incisivo al riguardo, preferendo concentrare il prelievo su lavoro e impresa. Ciò ha dato vita a uno squilibrio, nel confronto con altri paesi, che oggi penalizza la competitività delle aziende italiane. Da alcuni anni, si sono levate molte voci di protesta volte a cercare un riequilibrio nella tassazione. L’introduzione dell’Imu era un passo in tale direzione. Per quanto, dunque, si possa cercare di limitarne l’impatto, soprattutto a carico delle prime case, qualche forma di imposizione del genere è inevitabile che ci sia, come, del resto, accade nella maggior parte degli altri Stati membri dell’Ue. La riforma della tassazione sulla casa offre anche il destro per riformare le modalità di finanziamento del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti che andrebbe impostato come vera e propria tariffa, il più possibile orientata a imputare i costi a chi li determina in ossequio al principio “chi inquina paga”. Ciò avrebbe l’ulteriore beneficio di incentivare comportamenti virtuosi (per esempio la differenziazione dei rifiuti) sia da parte del cittadino sia da parte dei soggetti che erogano il servizio stesso.
Secondariamente, la tassazione sugli immobili è un tassello fondamentale del riordino della finanza locale. Nell’ultimo decennio, i comuni non si sono contraddistinti per virtuosità, ma sarebbe ingeneroso attribuire ai sindaci tutta la colpa. Essi, infatti, sono stati investiti da tali e tanti cambiamenti che non hanno avuto una vera opportunità di organizzare in modo diverso e migliore le attività degli enti locali. Ciononostante, in una prospettiva di lungo termine, si può intravvedere l’uscita da questa situazione di stallo. Le varie manovre di finanza pubblica hanno tipicamente penalizzato le amministrazioni periferiche più di quelle centrali.
Nel breve termine, la reazione più facile e immediata dei comuni è stata quella di aumentare le tasse locali che sono cresciute in misura spropositata. Oggi, da un lato, i comuni possono contare sempre meno sui trasferimenti dal centro che, nella migliore delle ipotesi, resteranno costanti, o continueranno a diminuire; dall’altro lato, si è arrivati a un punto di rottura, oltre il quale i contribuenti non possono più tollerare inasprimenti dell’imposizione. Se la riforma della fiscalità sugli immobili fosse utilizzata come leva per forzare questa evoluzione, facendo sì che gli amministratori locali rispondano ai propri elettori, non solo per quanto e come spendono, ma anche per quanto e come tassano, avremmo finalmente creato quei presupposti di reale autonomia impositiva dai quali ci si può attendere un risveglio del senso di responsabilità. A quel punto, infatti, la loro rielezione verrebbe a dipendere anche dall’uso, più o meno moderato, della leva fiscale.
Si noti, però, che tale incentivo potrebbe non essere sufficiente. Occorre cambiare abitudini consolidate. Non è solo questione di fredda efficienza economica: offrire una risposta agli scandali della moltiplicazione dei cda e delle poltrone strapagate è indispensabile a ristabilire un rapporto di fiducia tra elettori e amministratori. Esattamente come le parole di Voltaire non sono sempre generalizzabili, ma in questo caso valgono, lo stesso si applica alle teorie di Thaler e Sunstein sul “nudge“: i sindaci hanno bisogno di aggiungere alla carota della popolarità un colpettino del bastone della disciplina.
La “spintarella” può arrivare da un dosaggio intelligente dei trasferimenti dal centro, condizionandone i livelli al rispetto di una serie di vincoli. Vincoli che non devono essere ciecamente aritmetici come, per lo più, avviene ora nel Patto di stabilità interno, ma possono anche diventare intelligenti. Per esempio, così come si sono rese le privatizzazioni un parametro di virtuosità, potrebbero essere premiati i comuni che riescono a contenere i costi di produzione dei servizi – salva la loro libertà di fissare diversi livelli di servizio – attestandosi a costi “efficienti” o “standard”. E, allo stesso modo, i comuni che siano sia fortemente indebitati sia fortemente patrimonializzati non dovrebbero essere salvati finché non riportano l’indebitamento sotto una soglia critica, attraverso la cessione di asset (ogni riferimento è puramente casuale).
In sostanza, l’aspetto (involontariamente) positivo del teatrino dell’Imu è che offre l’opportunità di mettere mano alla finanza locale, razionalizzandola fino in fondo. Ciò implica l’impegno a rendere i comuni finanziariamente più autonomi e responsabili, disegnare i tributi in modo che incentivino comportamenti corretti, e premiare i sindaci virtuosi. La revisione della spesa deve essere un processo costante, alimentato dalla pressione dei cittadini che, ovviamente, vogliono pagare meno tasse. La spending reviewcentrale può fornire le linee guida, ma è la fisiologia democratica che va spinta verso la sua metabolizzazione.
Ogni elezione diventerebbe così un’occasione per fare le pulci al bilanci e pretendere un miglioramento della qualità della spesa e un prelievo il più basso possibile per ogni dato livello di uscite.
Carlo Stagnaro e Alberto Saravalle