Poche riforme in Europa ma occorre farle subito
24/07/2017 di Alberto Saravalle.

Dopo anni di pessimismo sul futuro dell’Unione il mood in Europa è improvvisamente cambiato e si è passati a un ottimismo quasi eccessivo. Indubbiamente ci sono motivi per ben sperare: i segnali economici sono positivi, i populisti sono stati sconfitti in diversi paesi, e soprattutto Macron ha vinto in Francia con una piattaforma nettamente europeista. Anche Trump ha inconsapevolmente contribuito a rafforzare la consapevolezza di dover riprendere il futuro nelle nostre mani. Così, mentre fino a pochi mesi fa pareva impossibile anche solo ipotizzare una modifica dei Trattati, per l’impossibilità di trovare l’accordo di tutti i paesi sulle riforme necessarie, tale eventualità è stata ormai sdoganata dal rinnovato asse franco-tedesco.

Ma le ragioni che hanno alimentato le nostre preoccupazioni e fatto crescere a livelli pericolosi le spinte antieuropee non sono scomparse: Brexit, la paralisi decisionale del Consiglio sui principali dossier, l’azione inconcludente della Commissione, l’incapacità di affrontare l’emergenza migranti, la crescente conflittualità con i paesi dell’est, la crisi finanziaria senza fine in Grecia, ecc. Occorre pertanto cogliere il momento propizio, mentre si può ancora far conto sull’ombrello della Banca Centrale.

Un utile punto di partenza per capire cosa bolle in pentola è il reflection paper sull’approfondimento dell’Unione economica e monetaria pubblicato dalla Commissione qualche settimana fa. Le numerose misure menzionate, la cui attuazione è contemplata entro il 2025, riguardano (i) l’unione finanziaria (per realizzare un mercato più integrato dei capitali e completare l’unione bancaria), (ii) l’unione economica (per incrementare la convergenza sul piano economico e sociale) e fiscale (per stabilizzare l’area euro prevenendo eventuali ulteriori crisi) e (iii) la governance (per assicurare una più efficace gestione delle crisi e dare maggiore trasparenza e accountability al processo decisionale).

Il completamento dell’unione finanziaria, per quanto importante, è già da tempo sull’agenda europea e, con reciproche concessioni, prima o poi sarà realizzato attraverso normativa secondaria. Si tratta di superare le resistenze tedesche al sistema unico di garanzia dei depositi (dopo l’esperienza delle banche venete, forse possibile a fronte di un irrigidimento delle regole sugli aiuti di stato) e avanzare con maggiore decisione nella realizzazione dell’unione dei capitali. Le vere partite che si giocheranno nei prossimi mesi riguardano piuttosto l’unione fiscale e i meccanismi di dell’eurozona.

L’unione fiscale solleva timori che l’utilizzo di fondi comuni comporti trasferimenti a favore dei paesi meno virtuosi e incentivi l’azzardo morale di questi ultimi. Occorre, pertanto, delimitarne l’ambito e fissare delle chiare regole di governance. Si discute anche se debba riguardare l’Unione o, come pare preferibile, l’eurozona. In una visione minimalista, dovrebbe solo servire a finanziare gli investimenti in maniera più decisa di quanto avviene oggi, mentre per altri dovrebbe servire anche per talune spese di comune interesse (es. difesa comune). L’ipotesi più concreta è di iniziare con la creazione di un fondo di stabilizzazione per fronteggiare eventuali gravi shock asimettrici o crisi dei sistemi previdenziali nazionali nell’eurozona. Un paracadute per le crisi che verranno.

Macron ambisce, invece, alla creazione di un vero e proprio Tesoro che gestisca un bilancio, cumulando le predette funzioni di stabilizzazione finanziaria con le competenze in materia di emissione di “safe assets” oltre a quelle che oggi fanno capo al Meccanismo Europeo di Stabilità (MES). Il che dovrebbe andare di pari passo con la nomina di un Ministro delle finanze che funga al tempo stesso da Presidente permanente dell’eurogruppo. Vaste programme. Alla Germania basterebbe creare un Fondo Monetario Europeo che rimpiazzi il MES, al quale sarebbero attribuite anche funzioni di sorveglianza dei bilanci (esautorando così la Commissione, vista con crescente sfiducia da Berlino).

A tutto ciò si deve, a mio avviso, inevitabilmente aggiungere una qualche rivisitazione del patto di stabilità. La stessa Commissione riconosce nel reflection paper che occorre semplificarlo. La realtà è che non ha mai funzionato e che negli ultimi anni è divenuto uno strumento utilizzato in chiave politica dalla Commissione che sceglie, arbitrariamente, se darvi pedissequa applicazione o voltarsi dall’altra parte. La flessibilità, introdotta nelle prime riforme del patto nel 2005, è gradualmente venuta meno per effetto delle diverse controriforme (fino al Fiscal Compact) ed è stata (ri)conquistata in parte a forza di pugni sul tavolo. A chi giova questa situazione di incertezza e conflitto permanente? Come si è visto il catalogo è lungo. Occorre concentrarsi su poche riforme, ma decisive da realizzare prima delle elezioni del Parlamento europeo nel 2019 per “cambiare verso” all’Europa. Si può essere ambiziosi e fare un salto di qualità rispetto alla politica dei piccoli passi. Forse non si riuscirà subito a realizzare un Tesoro dell’eurozona, ma è importante muovere verso l’unione fiscale, superando il tabù dei trasferimenti ai paesi deboli, e al tempo stesso iniziare a modificare regole di governance e patto di stabilità.

A volte i treni passano e occorre salirci al volo perché non si sa se e quando passerà il prossimo. Questo è uno di quei momenti, per una concomitanza di situazioni favorevoli, sul piano politico e personale: Merkel – dopo la quarta elezione ha la chance di restare nella storia, Macron deve mantenere ciò che ha promesso e per l’Italia (che serve al tavolo per fare da puntello all’asse franco- tedesco) è un momento propizio per far valere le nostre istanze.

Alberto Saravalle

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