È bastata una semplice allusione alle privatizzazioni da parte del ministro Saccomanni (peraltro immediatamente ridimensionata) per scatenare un dibattito accesissimo sull’opportunità o meno di cedere partecipazioni e beni pubblici. Il tema è di fondamentale importanza, sia per i suoi potenziali effetti sui mercati interessati dalle privatizzazioni, sia per le ovvie conseguenze sul debito pubblico. La questione è estremamente complessa e non può essere valutata solo in termini contabili: bisogna quindi sperare che non si risolva tutto in un ballon d’essai estivo.
Per costruire il futuro, bisogna anzitutto studiare il passato: cioè la prima ondata italiana di privatizzazioni, tra il 1993 e il 2005. Il risultato – che molti hanno criticato – è tutt’altro che sconfortante. Il percorso non è sempre stato coerente, è rimasto incompiuto e sono stati commessi errori: la creazione dei “nocciuoli duri” che consentivano a pochi di avere controllo con investimenti limitati, le offerte pubbliche effettuate senza un percorso chiaro con l’obiettivo di monetizzare mantenendo il comando in mani pubbliche, le mancate liberalizzazioni che dovevano accompagnare il processo, l’aver favorito il mantenimento del controllo delle banche da parte delle fondazioni, l’aver omesso di incentivare le privatizzazioni anche degli enti locali (che, anzi, in questi anni hanno aumentato smisuratamente il numero di società partecipate). Benché gli esiti siano diversi a seconda dei casi, è comunque difficile negare che, in media, il paese ne sia uscito modernizzato e dinamico.
Sorvoleremo sull’annoso dibattito politico sul “se” privatizzare (già, peraltro, sono riprese le lamentazioni dei nemici ideologici della privatizzazione che invocano piuttosto, in sua vece, una nuova politica industriale) per concentrarci su quello tecnico del “cosa“, “come” e “quando“. Al riguardo, oggi possiamo far tesoro, non solo della nostra esperienza, ma anche delle regole e buone pratiche codificate dall’Ocse sulla scorta dei successi e fallimenti degli ultimi vent’anni.
Esistono tre grandi categorie di asset privatizzabili (cfr. gli studi dell’Istituto Bruno Leoni e di Astrid): le società (partecipate, direttamente o indirettamente, dal Tesoro o dagli enti locali), gli immobili (per oltre il 90% in mano agli enti locali) e le concessioni (che però richiedono un discorso a parte).
Tra le partecipazioni detenute dal Tesoro o dalla Cassa Depositi e Prestiti, alcune come Eni, Enel, StMicroelectronics, Terna, Snam e Finmeccanica, sarebbero facilmente cedibili e remunerative, ma sollevano problemi politici di opportunità che comunque in qualche modo devono essere superati. Tra le restanti, non quotate, invece, le principali sono Poste e Ferrovie (ma anche Istituto Poligrafico, Fintecna, Rai, ecc.) che richiederebbero delle operazioni preliminari. Per esempio, per le Ferrovie dovremo anzitutto procedere alla separazione dell’erogatore del servizio dalla rete, come abbiamo già fatto per elettricità e gas e come il commissario UE Kallas ci ha esortato a fare (è poi necessario sia pienamente funzionante il regolatore indipendente di settore, di cui sono appena stati designati i vertici in attesa di convalida parlamentare). Lo stesso tipo d’intervento può essere utile quando la natura conglomerata dei business, in presenza di oneri universali o altre forme di pubblico servizio, può dar vita a sussidi incrociati (come nel rapporto tra la rete postale e Bancoposta).
Per le partecipazioni degli enti locali il discorso sarebbe assai più lungo e comunque non sarebbero realizzabili a breve: basti ricordare la recentissima decisione della Corte Costituzionale che ha sancito la sopravvivenza delle società strumentali destinate alla dismissione per decisione del governo Monti.
Per quanto attiene agli immobili, è doveroso ribadire l’importanza del censimento dei beni potenzialmente alienabili in capo agli enti locali che ancor oggi non è stato completato. Molte amministrazioni non hanno neppure risposto alle richieste del Tesoro! Qui i problemi sono molteplici: gli enti non solo non sanno cosa possiedono, ma non vogliono vendere e non procedono ai cambiamenti di destinazione funzionali a una valorizzazione dei beni. Il processo non può che essere gestito centralmente e a tal fine occorrerebbe prevedere dei meccanismi di swap col debito.
Ovviamente, fermi i principi del federalismo, l’unico modo per costringere le amministrazioni a cedere i beni è procedere con il “bastone e la carota” ovvero incentivandoli, ma anche utilizzando con fermezza il patto di stabilità. Ci sono sicuramente immobili liberi in mano alle amministrazioni pubbliche e si potrebbe anche cominciare a vendere quelli dell’edilizia popolare che oggi sono spesso finiti in disuso o in mano di soggetti che non ne hanno i requisiti.
Per quanto attiene alle modalità di cessione, nel caso delle società interamente (o quasi) possedute dal Tesoro, è preferibile una serie di emissioni successive, in modo da scaglionare l’uscita dello Stato secondo una roadmap che, però, deve essere nota e credibile fin dall’inizio. Ma anche in presenza di partecipazioni non totalitarie, va evitata la cessione in blocco (cioè, la cessione del controllo): è meglio rinunciare a un po’ di gettito, per dar vita a forme di azionariato popolare. Tutto deve avvenire nella massima trasparenza, senza discriminazioni implicite o esplicite. È impensabile avviare un ampio piano di dismissioni senza attrarre capitali stranieri. Per gli immobili, una volta completato il trasferimento e le valorizzazioni si potrà procedere anche con gli strumenti dei fondi immobiliari o della Siiq, previsti dal Decreto legge 98/2011.
In sintesi, ciò che resta da privatizzare non è, con poche eccezioni, immediatamente cedibile. In termini quantitativi, nella migliore delle ipotesi si può immaginare di ricavare €200/250 miliardi di euro nell’arco di un quinquennio. La priorità, però, non è il quanto. Il rientro dal nostro ingente debito nei parametri del fiscal compact non potrà certo avvenire solo con le privatizzazioni. Neppure il quando: abbiamo tempi lunghi per farlo (purché le scadenze siano vincolanti). Occorre piuttosto capire se si ha la forza di avviare il processo arrivando fino in fondo.
È meglio dunque evitare soluzioni confuse e frettolose, finalizzate solo a risolvere cosmeticamente il problema del nostro debito (spostando fuori dal perimetro del bilancioasset e debito) e affrontare il problema in modo sistematico.
Non serve creare un collaterale per l’emissione di un bond, senza avere ben chiaro come e quando si venderebbero i beni per rimborsare il debito. Già troppe volte abbiamo fatto operazioni di facciata che alla lunga ci hanno solo pregiudicato.
Ciò che serve ora è definire se siamo disponibili a vendere in tutto o in parte le principali partecipazioni pubbliche, prevedere gli strumenti normativi per farlo (ove servano), forzare gli enti locali a trasferire gli immobili e procedere in tempo utile ai necessari cambi di destinazione, creare una task force dedicata che le realizzi. Nel passato abbiamo fatto troppi annunci e i mercati ci hanno ripagato a suon di spread. Ora, i fatti per favore.
Carlo Stagnaro e Alberto Saravalle