Un celebre proverbio americano, reso ancor più popolare da John Belushi nel film Animal House, recita “quando il gioco si fa duro i duri iniziano a giocare”. Il dibattito sulla spending review sta entrando nel vivo: dopo la presentazione del primo piano di riforme del governo, è evidente che per far fronte al taglio del cuneo fiscale, che dovrebbe essere operativo già dal mese di maggio, è essenziale trovare molte più risorse e subito. Non basteranno le attese vendite di auto blu. Renzi deve dunque cominciare a giocare duro e il prossimo terreno di gioco potrebbe essere la galassia delle partecipate degli enti locali.
Lo ha reso esplicito Carlo Cottarelli, il commissario alla revisione della spesa, mettendole fin dall’inizio nel mirino e quantificando il risparmio ottenibile in tempi brevi in quasi 1 miliardo di euro l’anno (di più, probabilmente, nel lungo termine). Storicamente inefficienti, queste realtà sono una delle principali ragioni dell’elevato costo e della bassa qualità dei servizi pubblici. Il peccato originale sta nella proprietà pubblica: la coincidenza tra ente affidante e soggetto affidatario determina un conflitto di interessi che rende pressoché inevitabile l’insorgere di inefficienze, legate alla gestione clientelare tanto dei fornitori, quanto dei dipendenti.
Se Renzi vorrà seguire questa strada, l’occasione per iniziare ad affrontare il problema potrebbe arrivare il 30 aprile: entro quella data, infatti, gli enti locali dovrebbero ultimare la ricognizione delle rispettive partecipazioni societarie. Obiettivo dell’operazione non è solo mappare l’esistente, ma anche e soprattutto costringere i comuni a dichiarare quali società intendano mantenere (e perché), e quali invece vogliano dismettere. Non ci illudiamo. Nel passato, tutte le analoghe iniziative volte a una ricognizione delle partecipazioni o delle proprietà pubbliche sono fallite: gli enti locali, in larga parte, non hanno fornito le informazioni richieste. Nell’assenza di sanzioni o penalizzazioni, del resto, non avevano alcun incentivo a farlo. Tipicamente, rispettava gli obblighi solo chi aveva i conti a posto e non utilizzava le partecipate come veicoli fuori bilancio per nascondere spese e indebitamenti eccessivi, col risultato che quel poco che riuscivamo a sapere era viziato da una sorta di “self-selection bias“.
Il censimento delle partecipazioni, però, è solo un primo passo verso la riorganizzazione di quel settore. Gli obiettivi finali dovrebbero essere il miglioramento dei servizi e la riduzione dei costi per gli utenti. Per pervenire a questi risultati, occorre preliminarmente rispondere a tre semplici domande: 1) Esiste una ragione plausibile per cui un ente pubblico debba detenere delle partecipazioni societarie, salvo si tratti di gestire servizi pubblici essenziali? 2) In caso affermativo, la gestione del servizio è efficiente o può essere migliorata? 3) Qualora le società partecipate siano strutturalmente in passivo (è il caso di almeno il 40% delle società di trasporto pubblico), possono essere risanate, e come?
Alla prima domanda, l’ovvia risposta era già contenuta nella finanziaria per il 2008: le amministrazioni pubbliche “non possono costituire società aventi per oggetto la produzione di beni e servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né assumere o mantenere partecipazioni anche di minoranza in tali società“. La risposta alla seconda domanda presuppone invece il ricorso a normali principi dimanagement che però raramente trovano applicazione nel settore pubblico. I problemi maggiori riguardano la terza domanda. Molte realtà del “capitalismo municipale” infatti, si trovano in una tale situazione di cronico dissesto che non consente di ristrutturarle né, tantomeno, di privatizzarle. La loro struttura dei costi è incompatibile col vincolo di bilancio.
In questi casi, la soluzione di mercato sarebbe farle fallire e procedere poi all’affidamento del servizio attraverso gara pubblica, individuando nuovi erogatori. Tuttavia, i costi sociali e politici potrebbero essere insostenibili. Le rigidità del nostro mercato del lavoro, tanto più in una congiuntura negativa, sono tali da rendere pressoché inoccupabili larga parte degli attuali dipendenti; inoltre, nessun leader politico italiano sembra oggi avere la forza di intraprendere un simile scontro frontale.
Se le cose stanno così, bisogna trovare una soluzione politicamente ragionevole. Probabilmente questo implica l’apertura di un doppio binario di confronto: da un lato con i sindacati, dall’altro col governo. Ai primi bisogna chiedere di accettare licenziamenti per alcuni e ridimensionamenti salariali (o comunque l’impegno ad accrescere la produttività) per tutti gli altri. E quindi una forte attenuazione delle clausole sociali nelle gare, che oggi perlopiù prevedono di confermare tutto il personale in carico alle società partecipate alle medesime condizioni lavorative e salariali. Il governo, per parte sua, dovrebbe mettere a disposizione nuove risorse per aiutare i dipendenti che perdono il posto. Occorre un processo di formazione e ricollocamento, oppure una qualche forma di prepensionamento, a seconda dei casi. Tutto ciò causerebbe inevitabilmente un aumento della spesa pubblica, almeno nell’immediato, per il welfare. Ma è anche la condizione politica da pagare per ottenere una significativa riduzione della spesa per la produzione dei servizi grazie all’affidamento degli stessi a gestori più efficienti.
Per fare un esempio concreto: Atac, che gestisce gran parte del trasporto pubblico a Roma, ha costi di produzione superiori ai 7 euro / vettura km. Si stima che lo stesso servizio potrebbe essere prodotto a un costo di 2,5-3,5 euro / vettura km. Questo implica che la Capitale potrebbe spendere, anziché gli attuali quasi 1,2 miliardi di euro, circa 400-600 milioni di euro. In tal modo si creerebbe una disponibilità pari a circa 700 milioni di euro, di cui la metà potrebbero essere usati per formare, ricollocare o prepensionare (in uno scenario estremo) la metà dei circa 12.000 dipendenti di Atac: un sussidio di fatto pari a 40-50 mila euro pro capite. Ci sono, insomma, le condizioni per mettere il servizio sui binari giusti, tendere una rete di protezione sotto le “vittime” della ristrutturazione, e catturare comunque benefici importanti per la spesa pubblica.
Attraverso una procedura di gara ben disegnata questo risparmio potrebbe essere ottenuto in tempi relativamente rapidi, a Roma e altrove, destinando una parte della differenza agli ammortizzatori sociali. Ovviamente tale spesa sarebbe decrescente nel tempo, mentre il risparmio, avendo riposizionato molto più in basso l’asticella, sarebbe strutturale.
Tutto ciò presuppone un forte interventismo dell’amministrazione centrale rispetto a quelle locali. Non si tratta necessariamente di una estromissione di queste ultime dal processo di apertura dei servizi pubblici locali, ma certamente dell’esercizio di forti pressioni. I comuni che non sono in grado di gestire il cambiamento devono essere indotti a trasferire le proprie partecipazioni al centro (per esempio attraverso operazioni di swap col proprio debito verso la Cassa Depositi e Prestiti, come proposto dallo stesso Franco Bassanini in relazione agli immobili pubblici). Se la moral suasion non bastasse, dovrebbero essere utilizzati argomenti più concreti, quali la riduzione dei trasferimenti dal centro per i “riottosi”.
A differenza dei suoi predecessori, Renzi è credibile nel ruolo di colui che è pronto a giocare duro. Ovviamente, una volta iniziato il braccio di ferro non ci si può tirar indietro. Dopo tutto, Margaret Thatcher non sarebbe stata Margaret Thatcher se non avesse vinto il braccio di ferro col capo dei minatori Arthur Scargill.
Carlo Stagnaro e Alberto Saravalle