Chi controlla i controllori? L’antica domanda di Giovenale ha trovato una (involontaria) risposta estrema nelle famose parole di Richard Nixon: “Se lo fa il Presidente, vuol dire che non è illegale”. Chiunque non le trovi convincenti, deve misurarsi con delle complesse architetture fatte di pesi e contrappesi che da un lato consentano agli organismi politici di poter prendere decisioni efficaci, dall’altro ne limitino l’arbitrio. Lo sviluppo delle autorità indipendenti nasce proprio da questa esigenza: ma con quali risultati? È difficile dare una risposta univoca. Di certo, anche nel nostro paese è necessario fare un “tagliando” al sistema delle authorities. Il Decreto PA appena emanato fa un tentativo in tal senso, ma si tratta di un passo per certi versi troppo timido, per altri in una direzione non del tutto comprensibile. Infatti il decreto rischia di ridurre a mera questione organizzativa – la sede delle Autorità, le incompatibilità del personale, ecc. – un tema che è al tempo stesso più alto e più ampio.
Nell’arco di alcuni decenni le autorità sono proliferate e oggi regolano un gran numero di settori: mercati finanziari, concorrenza, comunicazioni, energia, assicurazioni, dati personali, fondi pensione, contratti pubblici (quest’ultima soppressa proprio dal decreto), ecc. E il numero continua ad aumentare: nell’ultimo anno, per esempio, sono state costituite l’Autorità dei trasporti e quella anticorruzione (nata sulle ceneri della Commissione per la Valutazione, la Trasparenza e l’Integrità delle amministrazioni pubbliche). Da anni si parla di una riforma organica del settore e sono stati finora presentati diversi disegni di legge.
Tra la fine degli anni ’80 e la metà degli anni ’90, l’Italia mise in moto un processo di cambiamento molto più profondo di quanto si creda: pur tra mille contraddizioni e reticenze, cautele e marcie indietro, il nostro paese dismise, almeno in parte, le vesti dello “Stato imprenditore” per indossare quelle dello “Stato regolatore”. Le cause di questa evoluzione sono molteplici: forse quella singolarmente più importante va rintracciata nell’esigenza di adeguarsi alle direttive europee che miravano a favorire l’integrazione dei mercati per giungere alla creazione del mercato interno.
Le ragioni teoriche per cui un’economia moderna ha bisogno di regolatori indipendenti sono molteplici. In sintesi, i regolatori indipendenti principalmente servono: 1) quando la dimensione tecnica della regolazione è prevalente su quella politica; 2) quando gli operatori del mercato hanno bisogno di un contesto più stabile e meno esposto alle temperie della politica; e 3) quando la regolazione ha margini di discrezionalità tali per cui i soggetti regolati debbano percepire il regolatore come “affidabile” e “terzo”. La teoria, però, è stata messa a dura prova in questi anni. E ne è seguita una triplice crisi del modello di regolazione seguito dal nostro paese: a) una crisi di legittimazione; b) una crisi di sovrappopolazione; c) una crisi di efficacia.
Innanzitutto è difficile per l’uomo della strada cogliere l’utilità di queste Autorità, misurare i benefici della loro azione e persino valutare se abbiano svolto in modo efficace il proprio lavoro. Legittimarne l’esistenza di fronte all’opinione pubblica è sempre più difficile proprio perché tipicamente questi soggetti si muovono su un terreno molto tecnico. Questa tensione – tra l’importanza delle loro decisioni e la percezione del pubblico – è letteralmente esplosa con la crisi economica, come hanno messo in luce Giulio Napolitano e Andrea Zoppini in un bel libro pubblicato da qualche anno. Le Autorità indipendenti sono ontologicamente incapaci di rispondere alle pressanti richieste popolari di “fare qualcosa”, proprio perché la loro attività consiste nel regolare i mercati in modo fluido e graduale: gli strappi non sono nella loro natura. La politica poi da sempre si sente espropriata di una parte della propria sovranità legislativa dall’autonomia conferita a queste Autorità e “fa buon viso a cattivo gioco”: lo si coglie molto bene nell’indagine conoscitiva svolta sul tema nella scorsa legislatura.
Il problema è che il confine tra le critiche al modello delle autorità indipendenti e quelle invece alla loro proliferazione non è netto: la crisi di legittimazione sfuma pertanto, a volte anche in modo opportunistico, nell’osservazione che le autorità sono comunque troppe, che il loro mondo è sovrappopolato. Se è indubbio che negli ultimi anni siano state introdotte autorità di cui forse non si sentiva l’esigenza (e lo si è fatto anche come tentativo di risposta a un’altra crisi di legittimazione, quella della politica e delle “vecchie” burocrazie). Questo ha portato ha creare strutture talvolta sovradimendionate o poco trasparenti. In questo contesto, anche le Autorità indipendenti – benché molte si distinguano per le elevate professionalità – sono finite nel mirino della spending review alla stregua di un centro di spesa irresponsabile (non senza ragioni, in alcuni casi). Come ha scritto Alberto Statera: “Le Autorità indipendenti sono ormai diciannove e non tutte svolgono i loro compiti con la solerzia e la sobrietà che sarebbero necessarie”. Sicché lo stesso commissario per la spending review Carlo Cottarelli ha suggerito un loro accorpamento. Le polemiche sui maxi-stipendi hanno fatto il resto, e anche qui è difficile fare di tutta l’erba un fascio. Così, per citare ancora Statera: “in nome dei sacrosanti risparmi c’è il rischio dell’incedere di un’ansia iconoclasta che può nascondere in realtà operazioni di potere”.
Negli ultimi tempi, infine, sono state mosse talune critiche puntuali relative alla loro gestione che ne hanno minato ulteriormente la credibilità, dando così luogo alla crisi di efficacia. Si pensi alle accuse mosse alla Consob, oltre che per talune controverse scelte effettuate, per le decisioni assunte sul piano delle regole interne e della struttura organizzativa. Tanto che, nei giorni scorsi il governo si è adoperato per por fine alla sua gestione monocratica, ripristinando la collegialità del vertice prima con la nomina del terzo commissario (da tempo mancante) e quindi riportando il numero dei commissari a cinque (ridotto a tre da Monti per risparmiare).
In questo quadro generale, il Decreto PA appena approvato dispone una serie di misure che sono state duramente criticate e che in parte sovvertono la scelta di decentrare le Autorità proprio per cementarne l’indipendenza. Purtroppo, non c’è una facile soluzione, perché il mondo delle Autorità indipendenti non può essere ridotto ad unum: se dunque è giusta la spinta al contenimento dei costi e alla crescenteaccountability, così come la critica che spesso questi soggetti sono stati regolatori inefficaci, è ugualmente vero che interventi con l’accetta rischiano di gettare il bambino con l’acqua sporca. La domanda a cui rispondere è dunque duplice: quali delle autorità esistenti devono essere mantenute e quali sono, invece, inessenziali e possono essere accorpate o eliminate? E, tra quelle effettivamente necessarie, quali hanno avuto una buona performance e quali invece hanno bisogno di una revisione? Queste domande devono trovare una risposta caso per caso, tenendo conto del dettato delle direttive europee che in alcuni casi prescrivono non solo l’esistenza, ma anche alcune caratteristiche dei regolatori.
Questo è insomma il più classico dei casi in cui è necessario adottare un approccio bottom up anziché uno top down: non esiste un problema delle autorità indipendenti, ma esistono tanti soggetti incaricati di funzioni regolatorie e investiti di un certo grado di autonomia. Spesso, anche per sfiducia nella pubblica amministrazione si è pensato che bastasse nominare un’Autorità indipendente per risolvere il problema. Oggi, per ciascun di esse è necessario guardare dove sono caduti i frutti: solo così sapremo se l’albero merita di essere bagnato, se ha bisogno di una potatura, o se invece dovrebbe essere abbattuto.
Carlo Stagnaro e Alberto Saravalle