La diagnosi è condivisa: l’Europa è gravemente malata e ha bisogno di una cura da cavallo a base di riforme. Il problema è che i molti medici che si accostano al suo capezzale offrono delle prognosi assai diverse. Come i medici di Pinocchio, però, il loro consulto è non di rado del tutto tautologico (“Se per disgrazia non fosse vivo, allora sarebbe segno che è morto davvero”).
Il risultato – tra veti incrociati, conflitti interni che si ripercuotono sulle scelte internazionali, carenza di leadership – è una protratta inattività mentre le difficoltà aumentano. Il Piano Juncker, che doveva contribuire a rilanciare la crescita, langue tra lungaggini implementative.
Nelle ultime settimane, le cronache ci hanno quotidianamente parlato del possibile default greco, dello spettro dell’uscita del Regno Unito dall’Ue dopo il futuro referendum, dell’affermazione di movimenti separatisti o ostili alle politiche europee di austerity, di liti per la redistribuzione dei rifugiati, di un rinnovato rischio di peggioramento dei conti in Italia (per effetto delle sentenze della Corte Costituzionale e della Corte di Giustizia). A ciò si aggiunga il recente monito di Draghi secondo cui la sola ripresa ciclica non sarà sufficiente a risolvere i problemi endemici da cui è affetta l’Europa (debito eccessivo, elevata disoccupazione strutturale, ecc.): servono interventi strutturali e modifiche all’assetto istituzionale.
A fine mese si terrà un summit dei capi di Stato e di governo che farà il punto della situazione. Tra l’altro, in quell’occasione sarà presentato l’atteso rapporto dei 4 Presidenti (della Commissione, del Consiglio europeo, della Banca Centrale e dell’Eurogruppo) per una migliore governance economica nell’eurozona. Abbiamo costruito un’unione monetaria, mentre la politica economica è restata nella competenza degli Stati membri, pur dovendo essere strettamente coordinata per contribuire alla realizzazione degli interessi dell’Ue. Come sappiamo, in questi anni, Commissione e Banca Centrale hanno supplito alle carenze dei governi nazionali prescrivendo le riforme e di fatto dettando la politica economica di molti paesi. Ciò, però, oltre ad avere esacerbato l’antieuropeismo, ha dato vita a una governance europea parallela che a lungo non può durare.
In questo contesto si sente spesso ripetere che l’alternativa è tra un più marcato federalismo e una inarrestabile disgregazione dell’Unione. Da ultimo Guido Rossi, su Il Sole 24 ore chiedeva un atto di coraggio per salvare l’Europa. Su questa linea, sembra essersi collocato anche il governo italiano che nelle scorse settimane ha predisposto un documento intitolato “Completare e rafforzare l’unione economica e monetaria” nel quale propone, in sintesi, un fondo comune contro la disoccupazione, il completamento dell’Unione bancaria, una maggiore integrazione del mercato unico, l’accelerazione del Piano Juncker, un bilancio unico dell’Unione e ipotizza di procedere a una maggiore integrazione anche a colpi di “cooperazione rafforzata” (ovvero solo con chi ci sta).
Più conservatrice sembra, invece, la risposta franco-tedesca che, secondo le indiscrezioni trapelate, parrebbe più incline a mantenere lo status quo, contrastando gran parte delle richieste di modifica dei trattati di Cameron. Al riguardo, peraltro, viene da chiedersi se esista ancora un asse franco-tedesco o sia ormai solo una questione di forma. Nel frattempo, il vice cancelliere tedesco, Sigmar Gabriel, ha parlato nuovamente di Europa a due velocità.
E il Regno Unito cosa vuole? Per ora Cameron, tranne le richieste di limitazioni all’immigrazione, peraltro più retoriche che concrete – non ha veramente scoperto le carte. È in corso un tour nelle principali capitali europee che dovrebbe consentirgli di capire il sentiment generale. Nel passato le priorità indicate erano: maggiore competitività (con un rafforzamento del mercato interno), stop alla “sempre maggiore integrazione” e un maggior peso degli Stati membri, più accountability delle istituzioni europee. Certo, Londra su molti versanti ha anche interesse a una politica più proattiva da parte della Commissione (come per esempio nella banking union), mentre su altri ha bisogno di rassicurazioni (per esempio in relazione alle periodiche richieste di introduzione di una Tobin Tax europea, che gli inglesi non possono accettare).
Insomma, pare che i principali paesi si presentino profondamente disallineati all’appuntamento di fine mese. Il rischio è che ancora una volta si esca con un nulla di fatto. Ma questa volta è necessario individuare un percorso che possa portare a delle riforme istituzionali in tempi ragionevolmente brevi con molto sano pragmatismo. Il referendum britannico lo impone, ma non è la sola ragione. Finora, la strada vincente è stata quella dei piccoli passi che hanno consentito nell’arco di qualche decennio di realizzare grandi riforme. Oggi, i tempi non sembrano consentirlo più.
E allora non resta che partire dalla constatazione che il processo d’integrazione deve completarsi più rapidamente, ma solo per coloro che lo desiderino e ne siano pronti. L’appartenenza all’eurozona ovviamente presuppone una maggiore integrazione anche delle politiche economiche. Piuttosto che una governance dettata, più o meno surrettiziamente, da Bruxelles, molto meglio che sia apertamente previsto e che alcune importanti politiche economiche siano istituzionalmente centralizzate. Gli altri paesi, Regno Unito in primis, potranno fruire dei tanti benefici dell’Ue, ma fino a un certo punto. Apriamo a Cameron: alcune richieste sono ammissibili, altre addirittura utili a evitare che l’Europa si areni sulle sole priorità franco-tedesche come talvolta è accaduto nel passato.
L’interesse comune è che il Regno Unito resti in Europa. Inutile fare battaglie per frasi simbolo come la “sempre maggiore integrazione” (nel Trattato di Lisbona, per esempio, abbiamo concesso alla Francia di eliminare i riferimenti alla politica di concorrenza tra gli obiettivi fondamentali dell’Ue e non è successo nulla). Concentriamoci sulla sostanza: più mercato interno e più investimenti. Serve europeismo nei fatti, non nelle parole. Ricordiamo che la crescita favorisce l’integrazione, la crisi nutre il nazionalismo.
Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro