Giorno dopo giorno cresce l’attesa per lo scioglimento della riserva da parte del premier designato Renzi e, soprattutto, per i nomi dei Ministri (con lo stesso spasmodico interesse con cui si attende la lista dei finalisti di Sanremo). Con il consueto stile, al quale ormai ci stiamo abituando, Renzi ha anticipato le prime riforme che intende portare a compimento a tappe forzate: una al mese (istituzioni, lavoro, burocrazia e fisco per cominciare). Dal suo staff trapelano poi anticipazioni sulle mosse successive che dovrebbero completare il disegno di grande riforma dello Stato da realizzare entro la fine della legislatura.
In questi primi giorni il premier designato ha, poi, incassato una serie d’importanti aperture di credito nella comunità internazionale: da Martin Schulz a Blair fino a Barroso. Il presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem ha perfino ipotizzato che la Commissione conceda al nuovo governo più tempo per rispettare il limite del 3% nel rapporto deficit/Pil a fronte di “riforme supplementari”. Raramente si erano viste simili manifestazioni di fiducia nei confronti di un nuovo leader, per la prima volta al governo. Neppure Monti e Letta – già all’epoca molto conosciuti e stimati nella comunità internazionale – avevano potuto godere di tanta fiducia a priori. Non solo: lo spread ha toccato nuovi minimi, scendendo sotto quota 190 e Moody’s ha rilasciato un giudizio tutto sommato positivo sulle nostre prospettive. Insomma, tutto sembra deporre per il meglio, anche se queste aperture nascondono una ovvia preoccupazione per i destini di un paese che pare incapace di trovare un equilibrio politico virtuoso.
A ben vedere, però, la situazione reale non è così rosea: abbiamo registrato un modesto +0,1% nel Pil del quarto trimestre del 2013 (la prima volta che si vede il segno positivo dal 2011), la disoccupazione è elevatissima, le sofferenze bancarie – indice della perdurante crisi economica – sono in crescita, e dovremmo presto iniziare a rimborsare 50 miliardi di debiti all’anno (che non abbiamo), ecc. I 60 mila artigiani, commercianti e imprenditori che martedì hanno sfilato per le vie di Roma manifestano un disagio reale e profondo, al punto da ricordare – in modo ancora più forte – il risveglio della “maggioranza silenziosa” incarnato dalla marcia dei 40 mila di Torino, nel 1980. Dunque, non c’è da stare allegri se non per la speranza che qualcosa cambi con il governo Renzi. Con la sua retorica e comunicatività, il premier designato ha creato ovunque aspettative molto alte che sembrano irragionevoli se si pensa che i provvedimenti dovranno passare il vaglio di una riottosa maggioranza e di un parlamento votato alla difesa di quegli interessi particolari che Renzi dichiaratamente vuole attaccare. Il premier incaricato ha il piglio decisionista del sindaco, e ciò trasmette sicuramente sicurezza agli osservatori: ciò nonostante, il capo del governo non gode, rispetto al Parlamento, degli stessi poteri del primo cittadino verso il consiglio comunale, né la maggioranza di Renzi sarà altrettanto coesa quanto quella a cui è abituato nella sua Firenze.
Il rischio principale, a questo punto, è che prevalga l’ansia da prestazione che, com’è noto, può arrecare spiacevoli inconvenienti limitando in ultima analisi la performance. Disattendere tali aspettative – in Europa dove si gioca la nostra vera partita – sarebbe disastroso perché ancora una volta si confermerebbe l’inattendibilità dei nostri governi. Per questo, sembra assai più prudente promettere poco e stupire, casomai, per aver fatto di più, prima e meglio di quanto previsto. Non vorremo sentire ancora una volta la litania dei “poteri forti” che ostacolano le riforme, dei burocrati che distorcono il senso delle leggi approvate con regolamenti difformi o addirittura le ostacolano, rinviando la normativa secondaria. Sappiamo tutti bene che le leggi, pur avendo ottenuto sulla parola il consenso della maggioranza, devono passare per le tagliole del parlamento e prima ancora per gli uffici dei funzionari, e che troppo spesso il diavolo si nasconde nei dettagli della regolamentazione. Poche settimane fa, ad esempio, ci è stato detto che mancavano ancora 127 regolamenti per attuare la legge di stabilità. Ma è piena responsabilità di ministri e sottosegretari seguirne il percorso, prevenire imboscate e verificare la congruità tra la lettera delle norme e le intenzioni dichiarate: i pasticci possono verificarsi per la malevolenza di un funzionario, ma se ciò accade è quasi sempre per la disattenzione di chi ne ha la responsabilità politica ultima.
Insomma, il paese necessità oggi più che mai di ciò che gli anglosassoni chiamano “execution“. Le riforme da fare, più o meno le conosciamo tutti: sono riassunte efficacemente dalla lettera di Draghi e Trichet datata 5 agosto 2011. Ciò che è mancato finora è la capacità di portarle a compimento, sia perché si è indotti a effettuare troppi compromessi con le varie categorie, portatrici di interessi particolari. Il governo Monti ha iniziato a perdere la propria forza dirompente proprio quando, sui caldi dossier delle liberalizzazioni e del mercato del lavoro – dopo aver teorizzato la fine del metodo della “concertazione” – si è messo a negoziare con gli uni e con gli altri, accettando alla fine di annacquare i provvedimenti.
Lo stesso vale per la composizione della squadra dei Ministri che, non importa se tecnici o politici, devono essere prima di tutto competenti nelle rispettive materie e autorevoli sui tavoli internazionali dove dovranno giocare la propria partita (non solo per la loro caratura, ma anche per la credibilità nel portare avanti con convinzione le riforme attese). La ricerca del colpo d’ala, del nome a effetto, è comprensibile ma penalizzante: sul piano della comunicazione Renzi ha già dimostrato di essere un fuoriclasse. E’ sul terreno dell’azione che deve guadagnarsi i galloni. Se non conoscono bene la macchina di governo, saranno costretti a fare affidamento sulle compagini dei burocrati e dei grand commis che potrebbero avere un’agenda affatto diversa da quella di Renzi. Devono, invece, operare senza soluzione di continuità, portando a termine le partite avviate (privatizzazioni,spending review, ecc.) e realizzare quelle promesse (mercato del lavoro, liberalizzazioni, taglio del cuneo fiscale, ecc.).
Insomma, meno “fuochi d’artificio” e più fatti. Non servono cose straordinarie: straordinario è fare bene le cose ordinarie.
Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro