Riforme strutturali, l’unica ricetta possibile contro la stagnazione secolare
24/12/2015 di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro.

Poche espressioni hanno avuto la stessa fortuna di “stagnazione secolare”. Il termine – ripreso nei giorni scorsi anche dal nostro Ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan – è stato utilizzato da Larry Summers in un importante discorso tenuto nel febbraio 2014, che ha recuperato una locuzione suggestiva utilizzata nel 1939 da Alvin Hansen. La provocazione di Summers ha generato un dibattito intenso e complesso, di cui è testimonianza, per esempio, il volume curato per il Ceps dagli economisti Coen Teulings e Richard Baldwin.

L’idea di Summers è che, per sbrigarla con una battuta, nulla sarà più come prima. La tremenda recessione innescata dalla crisi dei mutui subprime nel 2007 ha messo in tensione tutti gli strumenti di intervento tradizionali, e in particolare la politica monetaria. La “stagnazione secolare” si manifesta nella sistematica riduzione dei tassi di crescita delle economie sviluppate. In breve, anche quando questi paesi crescono, lo fanno in modo relativamente lento. Quindi, prospetticamente, il futuro non sarà più luminoso come lo era una volta, perché l’aspettativa che le generazioni successive saranno sempre e significativamente più ricche rispetto a quelle precedenti non è più così vera.

Per capire quanto quello evidenziato da Summers sia un problema reale, e quanto invece un’estremizzazione, occorre ricordare a una verità fondamentale. La crescita economica è trainata da due variabili: la demografia (cioè il numero di individui che producono reddito) e la tecnologia (cioè la capacità di ciascun individuo di generare reddito). Negli ultimi decenni si sono verificati due fenomeni: in primo luogo, i tassi di crescita della popolazione hanno rallentato, e dopo l’esplosione demografica del Novecento, è probabile che nei prossimi decenni la popolazione globale tenda a un asintoto. In secondo luogo, l’evoluzione tecnologica si è indirizzata verso sentieri che rendono più difficile misurarne gli effetti in termini di creazione di ricchezza. Inoltre le “grandi innovazioni” sono state meno frequenti di quanto sia accaduto in altri momenti (in particolare “l’era della sinergia“, come lo storico economico Vaclav Smil ha chiamato gli anni tra il 1867 e il 1914 nei quali sono state poste le basi tecnologiche della nostra civiltà).

È in questo contesto che si inserisce la tesi di Summers: al cuore di tutto stanno i bassi tassi di interesse reali, che hanno prodotto una sovra-accumulazione di asset finanziari e di conseguenza una condizione di sovra-indebitamento, pubblico e privato. La complessità del quadro conduce tuttavia a una conclusione, nella sua generalità, piuttosto netta: qualunque siano le cause del fenomeno, la soluzione non può essere caricata sulle spalle di un solo soggetto. In particolare, non si può pensare che la politica monetaria possa da sola cavare il mondo d’impaccio. Piuttosto, occorre ripensare complessivamente il funzionamento dei sistemi economici.

Lo chiarisce molto bene Ed Glaeser nel suo contributo al volume collettaneo del Ceps. L’evoluzione tecnologica oggi ha assunto forme che la rendono più difficilmente catturabile dalle statistiche convenzionali, ma che nondimeno contribuiscono a incrementare il benessere reale degli individui. L’impatto della rivoluzione digitale, per esempio, va ben al di là della transazioni monetarie che essa genera (e che sono rilevate dagli istituti statistici). Al tempo stesso, però, queste evoluzioni hanno messo in tensione i modelli sociali sottostanti, e la stessa configurazione dello Stato sociale. Secondo Glaeser, la sfida della “stagnazione secolare” (che questa espressione descriva correttamente oppure i no i fenomeni in atto) va cercata in una serie di riforme che da un lato favoriscano l’accumulazione di capitale umano (e quindi più efficaci sistemi di istruzione e formazione), dall’altro incentivino l’occupazione e, soprattutto, rimuovano tutti quegli elementi che scoraggiano l’occupazione o riducono la mobilità dei lavoratori.

La risposta alla minaccia della stagnazione secolare, dunque, al di là del suo pilastro monetario, va cercata in quelle riforme strutturali che, nell’Unione europea, sono il cuore dello sforzo di aggiustamento degli ultimi anni. Riforma del mercato del lavoro, riduzione del carico fiscale, liberalizzazioni, efficienza del settore pubblico, sono tutti ingredienti della ricetta per la crescita. Se, infatti, intervenire sulla variabile demografica è complesso (e non necessariamente desiderabile), rimettere in moto la dinamica della produttività è un obiettivo a portata di mano. Esso richiede, più ancora che “fare cose”, un forte impegno nel “rimuovere ostacoli”. Su questo si gioca non solo la nostra affidabilità, ma soprattutto il nostro futuro.

Carlo Stagnaro e Alberto Saravalle

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