Nonostante la fragile tregua tra Russia e Ucraina, siamo a un punto che potrebbe, da un momento all’altro, divenire di non ritorno. Ma come siamo arrivati fin qui? La Russia ha enormi responsabilità, ma al contempo non si può dire che Stati Uniti e Unione europea non abbiano in qualche modo contribuito a esacerbarne il nazionalismo. Non si può parlare di una possibile adesione dell’Ucraina alla Nato o della sua associazione all’Unione europea senza tener conto delle inevitabili ricadute politiche, militari ed economiche per la Russia. Se queste conseguenze sono state debitamente considerate, allora l’Occidente si è assunto deliberatamente un rischio molto elevato. Potete immaginare, del resto, cosa sarebbe successo se a suo tempo fosse stata proposta l’adesione del Messico al Patto di Varsavia. Putin ha così avuto buon gioco nel sostenere la tesi del complotto occidentale.
La sfida di Putin all’Occidente sta mettendo in crisi consolidati equilibri geopolitici. La pressione sul confine ucraino, dal punto di vista del Cremlino, non è solo una questione di “unificazione nazionale” (in quanto Kiev, vista da Mosca, è un lembo di Russia sottratta alla madrepatria), ma è ormai il perno del braccio di ferro col resto del mondo. Lì si sfoga tutto il nazionalismo russo, e finché l’attenzione rimane focalizzata sulla politica estera, lo “zar” potrà continuare a esercitare indisturbato il proprio potere semi-dittatoriale sul paese. Perché il punto è che la crescente aggressività di Putin all’estero è in buona parte figlia di problemi politici interni: non perché la sua leadership sia minacciata dall’emergere di qualche “rottamatore” (almeno nel futuro prevedibile), ma perché la polarizzazione del conflitto tra Russia e Occidente, come ai tempi della Guerra Fredda, fornisce una distrazione e, al tempo stesso, un capro espiatorio da ostentare agli occhi del popolo russo.
Vale la pena, a questo proposito, citare The Economist che, nel numero in edicola, ha chiaramente posto i termini del problema:
Se lo si giudica alla luce degli obiettivi che Vladimir Putin finse di adottare quando ottenne la presidenza della Russia 15 anni fa – la prosperità, lo Stato di diritto, l’integrazione con l’Occidente – definirlo un successo sarebbe sinistramente comico. Ma quelli non sono più i suoi obiettivi, se mai lo sono stati. Guardate al mondo dal suo punto di vista, e Putin sta vincendo. Nonostante tutte le macchinazioni dei suoi nemici, rimane il signore indiscusso del Cremlino
La sua arroganza sul piano internazionale è figlia della grave crisi economica che sta colpendo la Russia, peraltro già iniziata prima della guerra di Crimea. Negli ultimi anni, il sistema si è retto principalmente sulla “rendita petrolifera“, utilizzata per garantire servizi e sussidi ai propri cittadini (in particolare, per erogare gas alle famiglie a prezzi stracciati, il che – in un paese caratterizzato da temperatura assai rigide – è la più importante forma di welfare). I proventi, però, in larga parte sono finiti nelle tasche di pochi, anziché tradursi in un reale ammodernamento del paese. L’avvicinamento dell’Ucraina all’Unione europea ha anche infranto il progetto di un’unione economica euroasiatica che doveva riportare nella sfera della Russia i vecchi stati facenti parte dell’Unione Sovietica. Il crollo dei prezzi del petrolio, di cui peraltro si parlava già da tempo, ha dato il colpo finale. Le sanzioni internazionali, che a loro volta si sono abbattute sull’economia russa, hanno, sia pur limitatamente, aggravato la situazione.
Bastano tre dati per prendere atto della gravità della situazione, dalla prospettiva del Cremlino. Primo: il tasso di crescita atteso da qui al 2030, che fino a poco tempo fa era stimato nell’ordine del 4-4,2% annuo, adesso viene ufficialmente valutato attorno al 2,5% (un tasso di crescita che, date le caratteristiche demografiche e il reddito pro capite, non è affatto elevato). In sostanza, i russi hanno dovuto quasi dimezzare la loro prospettiva di crescita, che era evidentemente eccessivamente legata alla monocoltura petrolifera. Secondo: fino a poco tempo fa, le entrate legate a petrolio e gas (che costituiscono circa il 68% dell’export totale) coprivano circa la metà del bilancio pubblico russo. Si stima che, per mantenere il bilancio in pareggio, ai russi serva un barile attorno ai 100 dollari, lontano anni luce dai livelli attuali e da quelli attesi nel futuro prevedibile. Terzo: se le tendenze osservate nelle prime settimane dell’anno dovessero essere confermate, il tasso di migrazione verso la Russia dagli Stati satellite potrebbe crollare addirittura del 70%.
E allora quali vie d’uscita? Da un lato, vi è chi ritiene che, mutatis mutandis, si possa reiterare la politica di Reagan degli anni ’80 che, trascinando l’Unione Sovietica in una competizione sempre più spinta sui sistemi di difesa (il programma Star Wars), l’ha di fatto sbancata, accelerandone il collasso. E invero, in un paese democratico, normalmente le difficoltà economiche implicano un cambio di governo attraverso le elezioni. Ma in un contesto democratico solo formalmente, nel quale la libertà di parola e di organizzazione sono seriamente menomate, e nel quale ogni tentativo di opposizione è stato stroncato senza troppi complimenti, le modalità del ricambio sono al tempo stesso meno accessibili e più traumatiche. Dall’altro lato, invece, si potrebbe cercare un confronto con Putin proprio sui temi economici, barattando in qualche modo uno standstill in Ucraina con delle concessioni che possano consentirgli di arrestare la vertiginosa spirale negativa in cui si è avvitata la Russia.
In ogni caso occorre fare presto, perché il paese gli sta franando sotto i piedi, e cercare una soluzione economica anziché una escalation militare o un confronto solo politico. Si suol dire “bastone a volontà e carota quanto basta”: in questo caso, forse, serve soprattutto la carota. Per citare l’arcinota battuta di Clinton: “It’s the economy, stupid”.
Carlo Stagnaro e Alberto Saravalle