Negli ultimi giorni dell’anno, come sempre, poco accade di politicamente rilevante, ma si moltiplicano i commenti sui dodici mesi alle spalle. Il 2014 è stato l’anno dell’avvento a Palazzo Chigi di Renzi. Sul tema abbiamo letto, com’era inevitabile, critiche ed elogi, recriminazioni e soprattutto speranze per il prossimo futuro. Tra i vari commenti, nelle discussioni alle quali abbiamo partecipato, è stata anche ipotizzata un’imminente tornata elettorale. Il ragionamento che abbiamo sentito fare è che Renzi per governare necessita di una maggioranza più coesa in Parlamento e quindi – nonostante pubblicamente dichiari sempre di mirare a restare in carica fino alla naturale scadenza della legislatura nel 2018 – vedrebbe con favore la possibilità di andare alle urne in primavera. A noi sembra una delle tante boutades di questo periodo festivo che sarà presto dimenticata non appena si tornerà a parlare di cose concrete. Ci sono infatti molte ragioni oggettive che rendono assai improbabili le urne nel 2015: vediamole.
Innanzitutto c’è un ingorgo istituzionale. Per cominciare c’è la legge elettorale che dovrebbe essere messa in discussione a giorni al Senato. Il premier pensa di ottenerne l’approvazione entro gennaio – ma si sa tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare – per poi tornare “rapidamente” alla Camera. Si continua, nel frattempo, a parlare dell’introduzione di una clausola di salvaguardia, frutto dell’intesa con Berlusconi, per ritardare l’entrata in vigore della legge in modo da non andare al voto prima del 2017. Vedremo.
Poi si dovrà procedere all’elezione del Capo dello Stato non appena Napolitano presenterà le sue dimissioni, annunciate nel discorso di fine anno. Tra una cosa e l’altra, anche ipotizzando che i giochi per il Quirinale si aprano a breve e si proceda tempestivamente alla nomina del successore, trascorrerà comunque un mese o due. Sembra abbastanza inverosimile che il nuovo Presidente, tra i primi atti del suo mandato, pur davanti a un impasse nell’attività parlamentare, sciolga le camere che lo hanno eletto. E resta ancora da approvare alla Camera la riforma del Senato che, per diventare legge, dovrà essere approvata nello stesso testo anche in seconda lettura in entrambe le camere. Certo si potrebbe anche andare alle elezioni senza l’adozione della riforma costituzionale, ma sarebbe uno scacco per Renzi che tanto si è speso per ottenerla.
In secondo luogo ci sono ragioni di tattica politica che inducono a ritenere che le urne siano ancora lontane. Al di là delle preliminari indicazioni di voto, sempre molto mutevoli, oggi nessuno può essere certo dell’esito delle elezioni, specialmente in presenza di una legge elettorale puramente proporzionale quale è il Consultellum. Il voto delle europee è ormai lontano. Il rischio è di ritrovarsi con un’affermazione di Salvini, un risultato comunque ancora politicamente significativo di Grillo e un Parlamento difficilmente governabile, persino più dell’attuale. Dopo 13 trimestri di recessione è rischioso presentarsi alle urne dai banchi del governo. Spesso in queste situazioni si entra nel concilio Papa e si esce cardinale. Perché rischiare? Il tempo è dalla parte di Renzi: Grillo continuerà a perdere terreno e l’ascesa di Salvini potrebbe consentirgli di recuperare voti moderati nel centro-destra in grado di controbilanciare una possibile creazione di un partito alla sua sinistra.
In terzo luogo, sul piano strategico, Renzi ha finora giocato una partita a tutto campo, proponendosi come un vero riformatore capace di parlare direttamente all’elettorato, senza intermediazioni, e in grado di dominare anche le minoranze riottose del proprio partito. Rischierebbe di perdere la faccia presentandosi all’elettorato con la consueta scusa (come ha più volte fatto Berlusconi) “io avrei voluto fare di più, ma me lo hanno impedito”. Quando ha fatto cadere il governo Letta sapeva ciò che lo attendeva. Oggi pertanto, la strada obbligata è quella di realizzare, almeno in parte, il programma che ha più volte rappresentato agli italiani. E deve al tempo stesso riuscire in qualche modo a portare a casa qualche risultato più concreto in termini di crescita e flessibilità del piano Juncker in Europa. Per inciso, la possibilità di ottenere deroghe effettive dal vincolo del 3 per cento dipende anche – se non soprattutto – dall’abilità di Renzi di portare a termine il processo di riforma interno. È in questo contesto, per esempio, che si inserisce la legge annuale per la concorrenza, più volte annunciata sia dal premier sia dal ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi. Tutti sono pronti a sparargli contro se non porterà a casa dei risultati concreti.
Se queste considerazioni sono esatte, dobbiamo entrare nell’ordine d’idee che per almeno due se non tre anni dovremo convivere con il governo Renzi. Del resto, per poterlo giudicare seriamente, anziché sulla base di impressioni epidermiche, serve più tempo e serve soprattutto che le riforme impostate facciano la loro strada verso l’approvazione, la bocciatura o lo stravolgimento parlamentare: solo allora si potrà dire cosa effettivamente è stato fatto e cosa no.
Chi gli è ostile si rassegni e cerchi di abbandonare i pregiudizi muovendo piuttosto critiche costruttive per migliorare la qualità degli atti governativi. Chi lo sostiene, cessi di elogiarlo aprioristicamente, per la mera rottura con il passato, e faccia invece pressione per delle riforme più coraggiose e incisive. Chi, come noi, si limita a valutare sul piano tecnico i suoi provvedimenti e l’azione in Europa, non può che spingerlo ad accelerare il passo per realizzare le riforme su cui si misurerà la efficacia dell’azione governativa: prima tra tutte una reale Spending review, accompagnata da una ondata di privatizzazioni e liberalizzazioni.
Il punto di caduta del ragionamento è, in fondo, molto semplice: Renzi è utile al paese, e a Renzi è utile restare a Palazzo Chigi, solo nella misura in cui utilizza il tempo che gli è concesso per portare a termine il lavoro iniziato. Speriamo che il premier capisca che questo è uno dei rari casi in cui il coraggio riformista può far coincidere l’interesse generale con l’interesse politico di un individuo.
Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro