Il dilagante nazionalismo in politica si sta rapidamente estendendo al mondo degli affari. Non ci riferiamo solo al protezionismo commerciale e alla concorrenza tra ordinamenti per attrarre investimenti esteri (o riportare in patria le imprese manifatturiere delocalizzate). Sempre più spesso i governi intervengono in fase autorizzativa per controllare gli investimenti nei settori “strategici”, soprattutto quando l’acquirente è cinese e la target possiede sofisticate tecnologie. Negli ultimi tempi si sono moltiplicati i casi di operazioni bloccate per questi motivi e diversi paesi, tra i quali Stati Uniti, Regno Unito, Germania e Italia, hanno emanato o annunciato più stringenti norme al riguardo. La stessa Unione europea ha proposto, poche settimane fa, l’adozione di un regolamento per coordinare le decisioni in materia.
Negli Stati Uniti compete al Committee on Foreign Investment in the United States (CFIUS) analizzare autorizzare le acquisizioni con implicazioni per la sicurezza nazionale. Benché la legislazione sia già rigorosa, l’8 novembre è stata presentata in Congresso una proposta di riforma, nota con l’acronimo FIRRMA (Foreign Investment Risk Review Modernization Act) che estende significativamente l’ambito dei controlli e pone taluni paesi in una lista nera che presuppone uno scrutinio più approfondito. Nell’ultimo anno, poi, sono state bloccate due acquisizioni nel settore dei semiconduttori (Lattice Semiconductor Corp. e Aixtron S.E.) da parte di fondi di private equity cinesi. Nel secondo caso la target era addirittura tedesca, ma aveva importanti asset negli USA. Ciò sta inducendo i fondi cinesi a espandersi prevalentemente in Europa. Infatti, dopo il diniego all’acquisizione di Lattice, il fondo interessato ha presentato un’offerta per una concorrente di quest’ultima, con sede nel Regno Unito, ritenendo che lo scrutinio qui sarebbe stato meno severo.
Proprio nei giorni scorsi, però, il Department for Business, Energy & Industry Strategy britannico ha pubblicato un libro verde contenente proposte di riforma per rafforzare i propri poteri di intervento nei settori critici e nelle infrastrutture. E’ previsto che, nel caso di acquisizioni di imprese nel settore militare o di prodotti a duplice uso ovvero che producano componenti di tecnologia avanzata, l’operazione debba essere autorizzata quando il fatturato della target supera £1 milione (l’attuale soglia è di £70 milioni) o essa abbia una quota di mercato pari o superiore al 25%.
A luglio la Germania, dopo alcune rilevanti acquisizioni da società cinesi nel settore energetico e dei media che avevano sollevato scalpore, ha reso più incisivi i poteri del Ministero Federale per gli Affari Economici e l’Energia. L’attuale disciplina consente di bloccare gli investimenti per motivi di ordine pubblico e sicurezza (definiti in modo ampio). Inoltre l’acquisizione di partecipazioni di almeno il 25% in specifici settori sensibili deve essere notificata ed è soggetta a un’autorizzazione preventiva.
L’Italia è stata finora molto aperta agli investimenti esteri, che i nostri stessi governi hanno spesso sollecitato, tanto che è divenuta uno dei principali paesi di destinazione per interessi cinesi (l’Italia è il terzo paese in Europa in termini di stock di investimenti cinesi con €12,8 miliardi) e provenienti dal medio oriente. Di recente, però, anche da noi qualcosa sembra essere cambiato. Il decreto fiscale ha esteso, per le operazioni poste in essere da soggetti extra-Ue, l’ambito d’applicazione dei poteri speciali. Dovranno essere individuati con regolamento i settori ad alta intensità tecnologica, oggetto della nuova disciplina quali infrastrutture critiche, intelligenza artificiale, robotica, semiconduttori, sicurezza in rete, ecc. Anche la normativa “antiscorrerie” – che impone a chi acquista una partecipazione in una società quotata superiore a determinate soglie (10%, 20% e 25%) l’obbligo di comunicare le proprie intenzioni, le fonti di finanziamento, le parti con cui agisce in concerto, ecc. – può essere letta in chiave protezionistica. Indubbiamente risponde a legittime esigenze di trasparenza societaria ed è affine a disposizioni statunitensi (Regulations 13D and 13G) e francesi (Articolo L. 233-7 VII del Code de commerce), ma è evidente che ostacola la contendibilità delle imprese e che, in un mercato ingessato qual è il nostro (con pochi capitali e soprattutto pochi capitalisti), ha come effetto secondario di limitare prevalentemente le acquisizioni dall’estero.
Sollecitata a febbraio da Italia, Francia e Germania, il 13 settembre, infine, la Commissione ha pubblicato una proposta di regolamento che prevede un meccanismo di revisione degli investimenti diretti provenienti da paesi extra-Ue ispirato al CFIUS. L’idea non è di sostituire i controlli a livello statale, ma di disciplinare l’interazione tra organi nazionali e dell’Unione. La procedura consente anche agli altri Stati interessati di presentare le proprie osservazioni circa i rischi per la propria sicurezza e l’ordine pubblico. La Commissione, se concorda con tali opinioni o comunque ritiene l’investimento ponga a rischio progetti o programmi europei, emetterà un parere non vincolante suggerendo di negare l’autorizzazione. Il paese interessato potrà non conformarsi, ma dovrà spiegarne le motivazioni.
La proposta è la giusta risposta ai crescenti nazionalismi economici, suscettibili di accrescere la già preoccupante conflittualità. Così si evita che eventuali malintenzionati possano giovarsi della frammentazione e asimmetria delle normative nazionali, e si può stabilire un proficuo dialogo con il CFIUS nell’interesse comune. La Commissione, però, dovrebbe essere meno timida, sapendo di avere una legittima base giuridica nell’art. 207, primo comma, del TFUE (politica commerciale). Questi temi dovrebbero essere sempre affrontati a livello europeo, con decisioni vincolanti soggette a revisione da parte della Corte di giustizia, salvo quando l’acquisizione impatti solo su uno stato membro. Ciò non solo restituirebbe all’Ue la propria funzione originaria di bastione contro tutti i nazionalismi, ma le consentirebbe anche di svolgere un ruolo più attivo nelle scelte di politica commerciale e industriale in un’economia globalizzata.
Alberto Saravalle