Della firma del Memorandum d’intesa con la Cina si parla insistentemente da giorni. Gli Stati Uniti hanno apertamente mostrato irritazione e preoccupazione per l’adesione alla Belt and Road Initiative. Saremmo, infatti il primo Paese importante (nel G7) a stringere un’alleanza economica con la Cina, che viene visto come un rivale sempre più pericoloso con il quale è in atto una vera e propria guerra economica.
Analoghe perplessità sono state manifestate in sede UE e molte critiche sono pervenute anche dai nostri principali partner europei. La questione ha acquisito un’importanza strategica tale da indurre il presidente cinese XI Jinping a scrivere un lungo editoriale per il Corriere della sera, evocando l’amicizia storica tra i due Paesi e formulando auspici per nuove e fruttuose collaborazioni. Il presidente del Consiglio Conte ha, per parte sua, difeso in più occasioni la portata dell’accordo, cercando di ridimensionarne la valenza e i pericoli e, comunque, a scanso di equivoci (oltre che per dare un segnale oltreoceano) si è annunciata l’estensione del golden power alle tecnologie 5G.
Il sottosegretario allo Sviluppo economico, Michele Geraci, ha rivendicato sul Financial Times il diritto dell’Italia ad assumere la leadership nei rapporti euro-cinesi, non mancando di sottolineare che i legami economici tra Roma e Pechino sono inferiori a quelli di Berlino e Parigi.
Come spesso accade, le polemiche hanno assunto connotazioni politiche e si dibatte di questo accordo come fosse un referendum sulla politica economica ed estera del governo, con prese di posizione aprioristiche. Da un lato si fantastica dei mirabolanti benefici per il nostro Paese derivanti dalle infrastrutture costruite con i fondi cinesi e delle grandi commesse alla portata delle imprese italiane.
Dall’altro, si paventa la svendita del Paese e si evocano scenari catastrofici, come peraltro avvenuto in molti Paesi che hanno aderito alla Belt and Road Initiative indebitandosi eccessivamente con la Cina. In effetti, spesso Pechino usa la leva degli investimenti esteri come strumento di pressione geopolitica, sia con l’obiettivo di premiare gli alleati, sia con quello di sanzionare i riottosi.
Indubbiamente, proprio perché nella nuova geografia mondiale Pechino è destinata ad avere un ruolo economico e politico sempre più rilevante, sarebbe ipocrita negare l’esigenza di mantenere e sviluppare un dialogo. Cosa che del resto il nostro Paese fa da tempo: basti pensare al coinvolgimento cinese nella holding a controllo pubblico Cdp Reti, che ha in pancia le quote di controllo delle maggiori infrastrutture energetiche (Terna e Snam), e ancora alle partecipazioni detenute in Autostrade per l’Italia, Ansaldo Energia e Pirelli, per citarne solo alcune.
Del resto, il governo gialloverde non è il primo a fare la corte agli investimenti cinesi. Ci provarono, lo stesso Tremonti (che alternava furori protezionistici al serrato corteggiamento affinché sottoscrivessero i nostri BTP), Renzi e da ultimo Gentiloni che nel 2017 si recò a Pechino per partecipare al Belt and Road Forum.
Il punto, dunque, non è se attivare un dialogo economico con Pechino, il che pare imprescindibile nell’interesse nazionale (indipendentemente dalle pressioni statunitensi), ma piuttosto definire correttamente i nostri obiettivi strategici a medio-lungo termine e verificare se la tattica adottata (il dialogo bilaterale) sia il modo migliore per raggiungerli.
Se il fine dell’alleanza è catalizzare investimenti infrastrutturali in Italia, – come ha argomentato Francesco Giavazzi – questa sarebbe una strategia piuttosto miope: quello che imbriglia lo sviluppo infrastrutturale italiano non è primariamente l’indisponibilità di capitali, ma l’inaffidabilità del quadro giuridico di riferimento (oltre agli eccessi burocratici e alla lentezza della giustizia).
La Cina non sembra temere questi problemi perché non pensa di risolverli nei tribunali italiani, ma sul piano politico, attraverso rapporti personali. E su questo piano l’Italia (ammesso che il governo possa legittimamente intervenire) risulterebbe nettamente perdente, dati i rapporti di forza.
Se il fine è quello di trovare chi sottoscriva i titoli del nostro debito pubblico, si tratta di una scommessa poco avveduta. Equivarrebbe a consegnare le chiavi di casa alla potenza asiatica. Basti ricordare come gli stessi Stati Uniti siano divenuti dipendenti dalla Cina per effetto dell’ingente quota di debito sottoscritto che è divenuta un’arma molto pericolosa nella guerra commerciale in corso.
Come potremmo poi prendere posizioni contrarie agli interessi cinesi, per esempio in sede europea? Tutto ciò senza considerare il fatto che, Pechino o non Pechino, il debito italiano è comunque eccessivo e va in ogni caso ridotto, quindi il miraggio cinese rischia di alimentare pericolose illusioni nella nostra classe politica.
Se il fine è quello di uscire dall’isolamento politico nel quale l’Italia si è messa, in realtà stiamo per ottenere l’effetto opposto. Non solo stiamo prendendo una posizione affatto diversa (e per molti versi opposta) da quella dei Paesi che contano in Europa e nel G7, ma stiamo anche mettendo a rischio la tradizionale alleanza con gli Stati Uniti, rinforzata in questi mesi dalle affinità politiche tra i rispettivi governi populisti. Oltretutto, la ghettizzazione italiana in Europa rafforza la posizione negoziale cinese, perché trasmette la sensazione che noi non abbiamo alternative, e quindi è due volte contro i nostri interessi.
Se il fine è di aprire il mercato cinese al Made in Italy (nel 2018, l’Italia ha esportato in Cina beni per un controvalore di poco superiore ai 13 miliardi di euro, a fronte di importazioni per quasi 31 miliardi), la tattica seguita è chiaramente inadeguata. Non è certo con un accordo bilaterale con forze così squilibrate che possiamo costringere la Cina a rimuovere gli ostacoli tecnici che limitano le importazioni e gli investimenti diretti in quel Paese.
Semmai, bisogna approfittare dell’attuale fase di apertura – ben descritta da Andrea Goldstein e Marco Marazzi, con tutte le sue ambiguità – per individuare gli ostacoli alle nostre imprese e trovare un modo per rimuoverli. Qui c’è una cruciale questione metodologica: se l’obiettivo è ambizioso come dovrebbe, non si tratta di supportare questa o quella impresa, ma di intavolare una complessa discussione sulle barriere tariffarie e non tariffarie.
Difficilmente questo confronto può vederci vincenti, se lo conduciamo in modo isolato o addirittura ostile rispetto al resto dell’UE, senza contare che la politica commerciale è un attributo di Bruxelles, e quindi lo spazio di manovra dei singoli Stati membri è limitato.
Purtroppo, come ha scritto Michele Boldrin, l’iniziativa italiana non solo appare raffazzonata e poco chiara, ma andrebbe spostata a livello europeo. Proprio per la natura e l’approccio della Cina, le relazioni dei paesi UE con Pechino non dovrebbe essere gestite alla spicciolata: naturalmente, questa scelta non riguarda solo l’Italia ma investe tutta l’Unione.
Il punto, insomma, non è tanto l’opportunità del dialogo, ma mandare il messaggio che l’interlocutore si trova a Bruxelles. Che, insomma, quel numero di telefono che Kissinger non riusciva a trovare, Xi Jinping deve utilizzarlo per fare affari in Europa.
Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro