Settant’anni dopo lo sbarco in Normandia, l’America potrebbe tornare in Europa aiutando a liberarci, questa volta dai lacci e lacciuoli di dirigismo e nazionalismo. Per dirla in termini marxiani si tratta di “un’impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi”, togliendo “di sotto i piedi dell’industria il suo terreno nazionale, con gran rammarico dei reazionari”. La citazione del “Manifesto del Partito Comunista” è ovviamente provocatoria, ma la conclusione di un accordo di libero scambio e investimenti tra Unione Europea e Stati Uniti (la Transatlantic Trade and Investment Partnership) aprirebbe importante prospettive di crescita e benessere di tutti. La Ttip, che l’Italia ha posto tra le priorità della sua presidenza di turno dell’Ue, comporta un allargamento degli spazi di cooperazione tra le due principali economie mondiali e, soprattutto, rappresenta un’opportunità forse unica per rimuovere barriere agli scambi ormai anacronistiche.
Naturalmente, il raggiungimento dell’obiettivo non sarà una passeggiata. Dovrà, infatti, scontrarsi con una serie di difficoltà pratiche di non poco conto. Vediamo di che si tratta. Per capire gli interessi in gioco è utile fa riferimento alla bozza del trattato circolata informalmente. Essa prevede l’avvio di un processo di armonizzazione delle regole, col relativo venir meno degli ostacoli di natura tariffaria e non tariffaria, di numerosi settori economici (banche, assicurazioni, telecomunicazioni, servizi postali, ecc.) e la liberalizzazione di diversi mercati dei prodotti. In virtù di tale processo dovrebbe essere garantita la libera circolazione di prodotti, servizi e fattori di produzione (incluso il lavoro) all’interno dell’area di libero scambio. Inoltre sono previste delle clausole a tutela dei reciproci investimenti, volte a impedire comportamenti protezionistici che hanno talora sacrificato importanti opportunità d’investimento e sviluppo nel nome di una difesa miope delle industrie nazionali (la Francia docet). In pratica, la Ttip può essere comparata al piano lanciato in Europa da Delors per completare il mercato interno entro il 1992. In altri termini, può dirsi che sia una sorta di “super Bolkestein“, la nota direttiva europea che ha parzialmente liberalizzato i mercati dei servizi all’interno dell’Ue.
Proprio la vicenda della Bolkestein è istruttiva per capire i principali ostacoli che il trattato troverà sulla sua strada. Essa, infatti, fu concepita inizialmente in modo molto radicale e, se avesse resistito alle pressioni lobbistiche, avrebbe dato un contributo essenziale alla creazione del mercato interno. Purtroppo, però, è stata prima azzoppata dal Parlamento Europeo, che ne ha fortemente limitato l’ambito di applicazione e l’efficacia, e poi ulteriormente indebolita all’atto del recepimento da parte degli Stati membri. Un’insufficiente vigilanza politica da parte della Commissione ha infine fatto prevalere un’interpretazione de minimis delle prescrizioni della direttiva.
Insomma, una cosa è evidenziare che i benefici del libero scambio sono ampiamente superiori ai costi, altra cosa è passare dal dire al fare o, per essere più precisi, dalle intese di principio agli aspetti di dettaglio. Il diavolo, si sa, è nei dettagli. La teoria economica spiega che quanto più grande è il mercato, maggiore è la mobilità dei fattori e minori sono i costi di transazione, tanto più è possibile sfruttare efficientemente i fattori di produzione stessi, creare valore e perseguire una migliore specializzazione del lavoro. Per citare Greg Mankiw, uno dei maggiori economisti contemporanei, “Few propositions command as much consensus among professional economists as that open world trade increases economic growth and raises living standards“. Al tempo stesso, l’integrazione dei mercati non è mai un processo indolore: essa, infatti, comporta l’erosione di posizioni di rendita di pochi che, però, hanno un significativo costo per la collettività. Pertanto, qualunque processo di apertura dei mercati deve essere condotto in modo graduale, per ridurne gli impatti sociali. E’ bene precisare che ciò non dipende da considerazioni di efficienza economica, ma da pragmatismo politico: è del tutto inverosimile che un accordo suscettibile di creare, seppure temporaneamente, aumenti della disoccupazione in alcuni settori, sia altrimenti politicamente fattibile. Il rischio, per dirla in poche parole, è che gli interessi toccati dalla liberalizzazione, sia pur di pochi, si coalizzino e riescano a bloccare l’accordo che pur produrrebbe maggior ricchezza per tanti. Chi crede nel libero scambio deve quindi concentrarsi principalmente sugli effetti di breve termine dell’integrazione commerciale, in modo da creare le condizioni per trovare il necessario consenso politico e arrivare in tempi ragionevoli all’obiettivo. Un approccio del tipo “tutto e subito” si risolve tipicamente in un “niente e mai”.
Se questo è vero, allora è critico il lavoro degli sherpa che stanno conducendo le negoziazioni in un balletto di bluff, concessioni reciproche e atteggiamenti più o meno opportunistici. I dettagli, come si è detto, sono fondamentali perché possono far deragliare il trattato in due modi: spingendo verso una radicalizzazione delle posizioni che lo farebbe naufragare, oppure annacquandone eccessivamente i contenuti. Trovare un ragionevole equilibrio è una missione politica e dipende interamente dalla capacità dei leader, su entrambe le sponde dell’Atlantico, di assegnare ai propri negoziatori una mission possible, che chiarisca in modo esplicito che il fallimento (di fatto o di diritto) dell’accordo non è un’opzione ammissibile. L’obiettivo, in sostanza, non deve essere quello del “taglio del nastro”, ma di ottenere un risultato concreto. Questo fine non è raggiungibile se la Ttip non riceve attenzione e priorità politica ai massimi livelli.
Sebbene la conclusione del trattato sia molto importante, non si può comunque non sottolineare il rischio che, continuando a perseguire la strada dei trattati bilaterali, si metta definitivamente a repentaglio le negoziazioni multilaterali per la liberalizzazione del commercio che sarebbero assai più efficaci. Per quanto un trattato tra Usa e Ue sia un’operazione significativa per il commercio globale, i suoi effetti non sono comparabili con quelli di un accordo che coinvolga anche gli altri attori, a partire dai paesi Bric e Mint. In principio, non c’è contrasto tra la conclusione di un accordo bilaterale più radicale e la partecipazione a un processo multilaterale inevitabilmente più blando e lento. Tuttavia è ben possibile che le due cose si elidano a vicenda, in termini di attenzione e commitment politico. Senza drenare ulteriore humus dal terreno più ampio (e oggi arido) degli accordi multilaterali, europei e americani devono pertanto sforzarsi di portare a casa un risultato concreto in tempi brevi, superando gli ostacoli delle lobby, gli interessi protezionistici degli Stati e la crescente ondata demagogica anti-liberale che tende a presentare questo accordo come un’invasione ostile e non una pacifica liberazione dei mercati.
Carlo Stagnaro e Alberto Saravalle