Dire che l’Europa ha bisogno di un cuore è retorico. Però è indubbio che per rilanciare l’integrazione europea – l’abbiamo scritto più volte – occorre ripartire dalle istanze più vicine ai cittadini. Come dimostra il crescente sentimento antieuropeo, oggi è già difficile spiegare che di euro non si muore. E’ dunque infinitamente complicato fare una battaglia che apparentemente riguarda i banchieri, a torto o ragione percepiti come gli apprendisti stregoni che hanno cagionato la crisi. In realtà, la partita che si è giocata in questi giorni a Bruxelles sull’Unione Bancaria non tocca solo le banche, ma tutti noi. E’una battaglia politica. Ecco perché.
Dopo la crisi che ha colpito il settore bancario in tutta Europa, con enormi costi per i contribuenti (in Germania 63 miliardi di Euro e nel Regno Unito 850 miliardi di sterline) e ripercussioni quasi fatali per l’intera Eurozona, ci si è resi conto che era necessario adottare una regolamentazione più “smart” e omogenea. Una ricaduta, con un paziente così indebolito, sarebbe letale. Così nel giugno 2012 i Capi di Stato e di Governo dell’UE hanno sposato – forse non tutti così intimamente convinti – l’idea di un’Unione Bancaria da completare, almeno sulla carta, prima della scadenza di questa legislatura nel giugno 2014.
Il primo obiettivo, riguardante l’accentramento della vigilanza, è stato raggiunto: è stato, infatti, adottato un regolamento e il sistema sarà pienamente operativo dal prossimo anno. Alla Banca Centrale Europea spetta la vigilanza diretta sulle principali banche (circa 130), mentre resta in capo agli organi nazionali quello sulle altre banche (ferma restando la facoltà della BCE di intervenire per assicurare la coerente applicazione degli standard europei). Nel frattempo è partita l’Asset Quality Review che insieme agli stress testconsentiranno alla BCE di avere una radiografia accurata del sistema bancario europeo.
Il secondo obiettivo, discusso in questi giorni, riguardava, invece, la creazione di un meccanismo comune di gestione delle crisi creditizie che possano avere ripercussioni gravissime sul paese di appartenenza e, in ultima analisi sull’intera Eurozona, com’è accaduto per Portogallo, Spagna, Cipro, e come avverrebbe se la situazione italiana dovesse precipitare. La Commissione ha proposto un meccanismo uniforme che però ha incontrato notevoli resistenze soprattutto dalla Germania. Al di là dei pretesti giuridici inizialmente invocati (non c’è una base giuridica nel Trattato, la competenza dovrebbe spettare al Consiglio e non alla Commissione) il vero tema era: chi paga in caso di default di una banca? La preoccupazione sottostante era ancora una volta che i contribuenti tedeschi finissero per pagare per il salvataggio di banche dei paesi del sud Europa.
Di qui una serrata battaglia per assicurarsi che innanzi tutto le crisi gravino, con un ordine di priorità prestabilito, su azionisti, obbligazionisti, creditori e clienti (salvo quelli garantiti per depositi fino a 100.000 Euro). E’ poi stata prevista l’istituzione di un fondo comune, alimentato dalle stesse banche, che nell’arco di una decina di anni dovrebbe raccogliere cinquantacinque miliardi. Fin qui tutto bene. Il problema è che succede nel frattempo, in caso di crisi, se questi fondi sono insufficienti. Lo stesso rischio vale a regime dinanzi a crisi di proporzioni simili a quella passata. Su questi temi lo scontro si è fatto pesante e nei giorni scorsi il Ministro Saccomanni ha preso carta e penna per chiarire formalmente la propria posizione, favorevole all’utilizzo anche di fondi pubblici dell’UE. Alla fine il compromesso trovato nella notte sembra prevedere che gli Stati o l’European Stability Mechanismpossano erogare finanziamenti ponte, ove necessario.
Ora si attende a breve – a latere delle altre misure per completare l’Unione Bancaria – unanormativa sulla separazione delle attività creditizie da quelle speculative, sulla scia della recentissima adozione della Volcker Rule negli Usa e di simili leggi in corso di approvazione in Francia, Germania e Regno Unito. A quest’ultimo riguardo, il Rapporto predisposto dal governatore della Banca Centrale Finlandese Liikanen prevede, per limitare l’impatto sui clienti della banca di disastrose operazioni speculative, la separazione obbligatoria in un’entità distinta dell’attività di trading per conto proprio delle banche in strumenti finanziari e derivati e delle altre attività legate a tali mercati, quando il loro volume raggiunga una soglia significativa per la stabilità finanziaria della banca.
I temi dell’Unione Bancaria e della loro regolazione s’incrociano poi con l’altra grande questione che tocca le banche (più che mai quelle italiane) di cui si va discutendo in questi giorni e che vede contrapposti i nostri interessi a quelli tedeschi. Come si valutano i titoli pubblici dei paesi dell’Eurozona detenuti in portafoglio dalle banche? Se – come vorrebbe il Presidente della Bundesbank Weidmann – si deve tenere conto del rischio default del paese, allora il capitale delle banche – già spesso risicato – sarebbe insufficiente con tutte le conseguenze che ne derivano. Insomma, come ha spiegato Francesco Giavazzi, solo ipotizzarne il rischio renderebbe realizzabile l’evento temuto facendo deflagrare il sistema.
A ben vedere queste non sono solo questioni tecniche che interessano banchieri ed esperti di finanza.
Non è in gioco la salvaguardia del sistema bancario europeo, ma anche la capacità delle nostre banche di stare sul mercato e, dunque, l’erogazione del credito alle imprese e ai consumatori. Ma soprattutto si sta giocando una partita sulla leadership europea. Ancora una volta, la Germania vuole mantenere una voce decisiva nell’erogazione degli aiuti, limitando così il potere degli organi tecnici dell’Unione. Bene ha fatto l’Italia a prendere una netta posizione per contenere le pretese tedesche, così come ci si aspetta che faccia sulla valutazione dei titoli di Stato. Nonostante le ingenerose critiche, già fioccate da più parti, sul compromesso al ribasso sull’Unione Bancaria, resta il fatto che l’accordo segna un punto di svolta fondamentale nel modello di regolazione bancaria europea che, col tempo, sarà reso più incisivo (forse già nel dibattito nell’Europarlamento). Del resto la storia dell’UE lo insegna: i progressi sono fatti da tanti piccoli passi.
L’Europa negli ultimi tempi è vista come un controllore severo che ci bacchetta per le nostre inadempienze. La verità è che dobbiamo fare i “compiti a casa” non per il timore di sanzioni, ma per avere voce in capitolo nei tavoli di Bruxelles che contano, com’era questo, e ottenere poi la flessibilità che ci serve per la crescita. Letta è rispettato sulla scena internazionale e deve utilizzare la sua autorevolezza per indirizzare il dibattito politico in Europa. Insomma: più politica e meno contabilità. Il semestre di presidenza che ci aspetta sarà il suo banco di prova.
Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro