“Continuiamo così, facciamoci del male”. La famosa battuta di Nanni Moretti nel film Bianca calza a pennello alle ultime uscite degli avvocati contro il ministro Cancellieri. La polemica riguarda il cosiddetto ritorno della mediazione obbligatoria nel Decreto del Fare e la revisione della geografia giudiziaria che prevede la chiusura dei “tribunalini”
Gli avvocati si sono detti “umiliati e offesi” dalle recenti dichiarazioni del ministro, hanno rifiutato di incontrarlo e si accingono a condurre l’ennesima serrata battaglia in Parlamento contro le riforme della giustizia civile promosse dal governo (che, per la verità, ci erano sembrate casomai troppo timide). Non è la prima volta e vedremo con quali effetti non solo per il paese, ma per la loro stessa categoria.
Richiamiamo brevemente i fatti. La mediazione obbligatoria, introdotta nella scorsa legislatura dal governo Monti per ridurre i tempi biblici delle cause (cercando di promuoverne una soluzione extragiudiziale), era stata bocciata dalla Corte Costituzionale per difetto di delega dal parlamento.
Il governo Letta ha reintrodotto la mediazione nel recente decreto, attenuandone comunque la portata. La sua obbligatorietà, infatti, si limita a un tentativo a costi molto ridotti e la durata del procedimento è limitata a 3 mesi. Ciò che più rileva è che, prevedendo le reazioni degli avvocati, è stata esclusa la materia della Responsabilità civile auto (un regalo agli avvocati della Campania dove, secondo i dati ufficiali del 2011, pende addirittura il 55% delle cause in materia), è stato consentito a tutti gli avvocati di svolgere di diritto le funzioni di mediatore ed è richiesta la loro firma per omologare il provvedimento finale.
Non basta. Anche in questi termini ridotti, la mediazione è vista da una larga parte degli avvocati come il fumo degli occhi perché potrebbe sottrarre delle cause, riducendo i già magri ricavi della categoria. A nulla rileva il fatto che si potrebbero spostare dalle aule dei tribunali decine di migliaia di cause minori, spesso pretestuosamente promosse, a vantaggio della collettività.
Analoghe considerazioni valgono per il taglio dei 31 tribunalini e delle 220 sedi distaccate. La ratio qui, si badi bene, non è solo di risparmiare (almeno €50 milioni), ma anche e soprattutto di avere una migliore qualità della giustizia. Nei piccoli tribunali, si sa, i giudici finiscono per essere dei generalisti che si occupano di tutto.
Lo stesso Csm ha riconosciuto che un ufficio con una pianta organica inferiore a 40 magistrati perde economie di scala e di specializzazione. La reazione, che ha significativamente trovato d’accordo tutti i partiti nelle Commissioni giustizia, è stata rabbiosa: enti locali, avvocati, magistrati hanno lamentato i ciechi “tagli lineari”. È stata adita la Corte Costituzionale che, però, in tempi fulminei si è pronunciata salvando il provvedimento (ad eccezione del tribunale di Urbino). Ovviamente, i principali interessi in gioco sono quelli degli avvocati locali, che temono di perdere una rendita di posizione e di affrontare qualche inconveniente dovendosi spostare di qualche chilometro per le udienze. Il resto non conta.
Le argomentazioni utilizzate per contrastare tutte le riforme proposte negli ultimi anni si sono sempre fondate su elevati principi costituzionali. Si è parlato, tra l’altro, della specialità degli avvocati, del loro ruolo di custodi dei diritti dei più deboli, di lesione della loro dignità, di attacco dei poteri forti, ecc. Il precedente governo è stato perfino attaccato perché tecnico e quindi carente di legittimazione. Di interessi economici di categoria non si e mai parlato.
La verità è che ogni riforma volta a modernizzare o liberalizzare la professione (e che pure incontrerebbe i favori di una parte importante dell’avvocatura) è stata osteggiata con ogni mezzo da quella parte che riesce a sopravvivere solo grazie alle distorsioni della giustizia civile. Così sono state affossate le prime riforme Bersani che avevano introdotto la pubblicità e il patto di quota lite (che consentiva a chi non se lo poteva permettere di pagare l’avvocato in funzione del risultato ottenuto) e le recenti riforme del ministro Severino che prevedevano la possibilità di costituire società professionali con soci di capitale e l’obbligo di fornire un preventivo al cliente.
La controriforma, adottata pochi giorni prima dello scioglimento delle camere, ha introdotto perfino una competenza esclusiva, prima inesistente, per le materie connesse all’attività giurisdizionale (solo gli avvocati ora possono dare consulenza extragiudiziale) e i poveri praticanti non devono essere pagati (dopo 6 mesi “può” – bontà loro – essere riconosciuto un compenso per l’attività svolta per lo studio).
L’operazione finora è andata bene per le organizzazioni di categoria, ma il paziente sta morendo: la professione ha subito una dequalificazione (confermata dai numeri decrescenti degli iscritti a giurisprudenza) e i redditi sono in calo. La risposta non è il numero chiuso all’università o la protezione di chi oggi sta già lavorando (magari raschiando il barile, come nel caso degli incidenti stradali). Al contrario, occorre una riqualificazione con interventi volti a favorire la specializzazione, l’integrazione degli studi legali, il lavoro in forma organizzata per importanti clienti che vedrebbero di buon occhio un’esternalizzazione dei costi aziendali del servizio legale, aprendo nuove nicchie di mercato, ecc.
Per esempio, consentendo l’accesso ad attività oggi riservate ad altre professioni, come quella notarile. Se i numeri contassero, gli interessi del paese dovrebbero prevalere in Parlamento su quelli di una categoria, per quanto influente. Così non è. Quando diventeremo un paese normale dove i voti si contano sul serio?
Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro