Questa è stata la tradizionale settimana dedicata al “pianto greco” sulla giustizia che non funziona in Italia. E’ ormai un rituale che si consuma ogni anno in questo periodo e che altrettanto rapidamente si dimentica. Sommi sacerdoti ne sono le massime autorità del nostro apparato giudiziario: il Primo Presidente della Corte di Cassazione e il Ministro di Giustizia che tradizionalmente, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, forniscono i dati aggiornati sul (mal)funzionamento della giustizia, sollevando, per qualche giorno, un’eco indignata nella stampa.
Ci limiteremo a parlare della giustizia civile: non perché per quella penale o fiscale non necessitino interventi radicali, addirittura in termini di civiltà giuridica. Oltre che per ragioni di spazio, perché è quella che, per le sue lungaggini, ha una pesante ricaduta economica sul sistema-paese. A poco serve fare rutilanti road-show per attirare gli investitori stranieri se i tempi medi per un giudizio fino alla Cassazione restano di 7,8 anni (la media OCSE è di poco più di due anni).
Quest’anno, per la verità, in mezzo a tante brutte notizie, c’è anche qualche dato apparentemente positivo. Innanzitutto, nella classifica del rapporto “Doing Business” della Banca Mondiale, nella sezione che misura l’efficienza della giustizia (enforcing contracts), siamo balzati dal 140° al 103° posto. A ben vedere, però, il salto non è dovuto a grandi riforme, ma prevalentemente alla riduzione delle tariffe degli avvocati.
La “settimana della giustizia” è iniziata sabato scorso con la presentazione del Bilancio di Responsabilità Sociale 2013 del Tribunale di Milano. Per chi è solito leggere con scoramento le tabelle con i numeri delle cause e la loro durata, è stato il momento di tirare un sospiro di sollievo. Certo, non possiamo sottacere che molte cose non funzionano e i numeri restano ancora, in larga parte, distanti dalla media OCSE, ma ci sono molti dati confortanti. Per esempio: la durata di un processo di primo grado a Milano è di 296 giorni (circa due mesi più della media europea), nel diritto del lavoro è stato smaltito tutto l’arretrato, il processo telematico è sempre più diffuso, è operativo l’ufficio del giudice (giovani laureati in tirocinio che aiutano il giudice), sono stati introdotti sistemi di controllo di gestione, ecc. E’ chiaramente un’isola felice nel nostro panorama giudiziario, ma non la sola e non è un caso. E’ il risultato di un duro lavoro di magistrati sensibili al problema e di una proficua collaborazione con gli stakeholder locali (Assolombarda, Camera di Commercio, Comuni dell’hinterland).
Martedì, invece, siamo stati riportati alla realtà dalla Relazione annuale del Ministro Cancellieri (che, per la verità, sembra assai più attenta ai temi della giustizia penale): quasi 9 milioni di processi pendenti, di cui oltre 5 milioni di cause civili (- 4% rispetto al 2012) e 387 milioni di euro pagati come risarcimento per la eccessiva lunghezza del processo.
Giovedì, in un’intervista al Corriere della Sera, il Vice Presidente del CSM, Michele Vietti, ci ha ridato qualche speranza dicendo che finalmente si sta lavorando a una riforma del percorso di carriera dei magistrati per cui si raccoglieranno i dati sulla loro produttività e il passaggio a incarichi direttivi dipenderà, tra l’altro, dall’attitudine a gestire le risorse e da altri parametri meritocratici. Una buona notizia. Aspettiamo e speriamo non siano tempi biblici.
Infine, oggi il Primo Presidente della Cassazione, Giorgio Santacroce, dopo aver lungamente parlato dei ben noti temi di giustizia penale (prescrizione, sovraffollamento carcerario, abuso della custodia cautelare), si è soffermato sulla giustizia civile, di cui si parla meno, ma che costituisce il vero scandalo per la lunghezza dei processi assolutamente fuori norma e vergognosamente distante dalle medie dei paesi civili. In particolare, ha evidenziato che, a dispetto di alcuni “miglioramenti”, le cause civili hanno un andamento “da considerarsi statisticamente costante”
Fin qui la cronaca. Che fare allora? Ci sono diverse correnti di pensiero sui metodi per affrontare l’emergenza della giustizia civile. La prima, più tradizionale e oggi un po’ superata, ritiene che sia necessario riformare le leggi, rendendo più spedite le procedure. La seconda, invece, pensa che sia una questione di capacità gestionale dei tribunali: si dovrebbe, perciò, estendere a tutto il territorio le best practices (come quelle di Torino e Milano). La terza, attribuisce la colpa alle carenze di organico dei magistrati e alla loro asserita scarsa produttività oltre che ai fondi limitati per la giustizia. Infine, la quarta pone l’accento sulla domanda drogata di giustizia, incoraggiata dal malfunzionamento del sistema, che fa sì che ogni anno vengano promosse centinaia di migliaia di cause più o meno pretestuose, anche perché a pagare e morire c’è sempre tempo.
Ovviamente, un po’ di vero c’è in tutte. Le norme possono essere semplificate. La capacità gestionale è importante, ma non si può estendere a tavolino; dipende, oltre che dalle capacità individuali, da molti fattori esogeni (i percorsi di carriera, la cooperazione degli altristakeholder che operano nel territorio, ecc.). E’ vero che i fondi sono pochi e ci sarebbe bisogno di più magistrati, ma è falso dire che sono poco produttivi. La verità, però, è che fin quando non s’interverrà anche scoraggiando pesantemente le cause pretestuose (es: oltre il 50% delle cause per responsabilità civile auto è nel distretto di Corte d’Appello di Napoli), ogni riforma, per quanto utile, è destinata a fallire.
Si chiude così, tra luci e ombre, la settimana di passione della giustizia. Ci piacerebbe pensare che porti alla resurrezione del sistema. Col pessimismo della ragione, temiamo sia solo un rito che – come la via crucis – si ripete ogni anno.
Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro