Le elezioni di midterm americane: cosa cambia per l’Europa?
07/11/2014 di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro.

Se il battito d’ali di una farfalla all’equatore può scatenare una tempesta al polo nord, figuriamoci un terremoto politico come quello che si è verificato in America con le elezioni di midterm. L’onda lunga dei commenti ai risultati è appena iniziata. Tutti si interrogano sulle cause del malcontento della middle class americana (nonostante un’economia che dopotutto cresce e non poco), sulla portata del successo repubblicano (storico o prevedibile?), sui compromessi possibili tra Obama e il congresso per rendere proficua la coesistenza per un biennio e sui candidati alle presidenziali del 2016 (Hillary Clinton, Jeb Bush, Ted Cruz, Marco Rubio, Rand Paul, ecc). Noi preferiamo invece concentrarci sulle possibili conseguenze che i risultati elettorali potranno avere per l’Europa e, dunque, in ultima analisi per noi. Del resto l’interdipendenza globale (ma soprattutto tra le economie occidentali) è tale che sarebbe ingenuo pensare che non abbia immediate ripercussioni da noi quanto avviene oltre oceano.

Il primo e forse più ovvio terreno di osservazione per le relazioni economiche e commerciali Usa-Ue, sul quale si è già concentrata l’attenzione dei commentatori, è il negoziato in corso per il Ttip, ovvero il trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti. Com’è noto si tratta di creare una grande zona di libero scambio che dovrebbe portare crescita e posti di lavoro su entrambe le sponde dell’oceano. Peraltro, gli Stati Uniti stanno parallelamente negoziando un analogo trattato con vari paesi del sud est asiatico e con l’Australia per dar vita a una zona di libero scambio anche nell’area del Pacifico. E da ultimo si inizia a parlare anche di futuri accordi di libero scambio con la Cina. I negoziati per il Ttip proseguono da tempo, senza troppa convinzione: gli oppositori infatti si trovano su entrambi i versanti dello spettro politico. Ovviamente una maggiore apertura dei mercati farà si che ci siano vincitori e vinti e questo preoccupa tutti coloro che oggi prosperano sul protezionismo diretto o indiretto. Di recente, poi, le discussioni si sono rallentate dopo il ‘revirement’ della Germania che si è opposta alla previsione di un meccanismo di soluzione delle controversie tra stati e investitori. Benché Juncker si sia affrettato a dire che nulla dovrebbe cambiare dopo le elezioni, resta il fatto che i repubblicani – che oggi controllano il congresso – hanno una più marcata posizione liberista e potrebbero fornire una utile sponda a Obama.

Il presidente infatti vuole chiudere il trattato, ma ha molti avversari interni: si pensi all’influenza dei sindacati sul Partito democratico. I repubblicani sono in teoria più disponibili a sentire parlare di ‘free trade’, ma anche in casa loro la situazione è complessa: vi è infatti una non piccola componente del partito sensibile agli interessi di molti ‘small business’ che temono, a torto o a ragione, la concorrenza internazionale. Un’accelerazione potrebbe aversi se il congresso – come aveva fatto in varie occasioni nel passato – autorizzasse la c.d. trade promotion authority con un meccanismo definito di fast track per cui il presidente può negoziare un accordo soggetto solo all’approvazione o rigetto del congresso, senza possibilità che venga modificato o peggio bloccato con ostruzionismi senza fine. Il cambio di maggioranza potrà essere utile alla Casa bianca solo se quest’ultima saprà costruire un consenso bipartisan, tagliando le rivendicazioni delle ali estreme.

Per quanto attiene alla politica estera, pur non essendo prevedibili grandi cambiamenti, dato che per molti versi rientra nei poteri del presidente, è indubbio che la maggioranza repubblicana nel congresso spinga verso posizioni più dure su tutti i teatri di conflitto. Questo, per quanto ci riguarda più direttamente, potrebbe voler dire un inasprimento delle sanzioni verso la Russia che ovviamente avrebbero un impatto di non poco conto sulle esportazioni e dunque sulle prospettive di crescita dei paesi europei.

Un altro settore nel quale il successo elettorale repubblicano potrebbe avere ripercussioni è quello dell’energia, posto che i repubblicani sono da sempre sensibili alle istanze dei produttori. Potrebbe per esempio essere facilitata la produzione di shale gas (sempre che i prezzi in discesa del greggio non lo rendano meno conveniente), grazie a un’ulteriore riduzione dei vincoli nelle attività di fracking. Non è da escludere, poi, che nel futuro possa anche essere rimosso il divieto di esportazione del petrolio greggio, risalente agli anni ’70, con importanti ricadute in termini geopolitici. Pure qui, paradossalmente, la vittoria repubblicana può far comodo a Obama, che ha promosso lo shale gas sia come volano competitivo per le imprese americane, sia come strumento per ridurre le emissioni di Co2.

Sembra altresì più probabile che le battaglie a favore dell’ambiente di Obama siano destinate a passare in secondo piano. La riduzione delle emissioni, anche attraverso una carbon tax, non è una priorità per i repubblicani che sono sempre più interessati alle ragioni della competitività che ad azioni unilaterali sul clima. Inoltre la vittoria repubblicana indebolisce ulteriormente i tentativi dell’Epa (l’agenzia ambientale americana), sostenuta in questo dal presidente, di regolamentare le emissioni di Co2. Il che potrebbe avere un impatto anche per l’Europa che, invece, ha appena varato un nuovo programma di riduzione delle emissioni per il 2030 che però è in qualche modo condizionato al raggiungimento di accordi globali in materia.

Resta infine da vedere cosa accadrà della politica monetaria. Ovviamente la Federal reserve è indipendente, ma non è insensibile a quant’altro sta accadendo nel paese. Se effettivamente, come taluni temono, la coabitazione tra un presidente democratico e un congresso repubblicano portasse a una situazione di stallo con nulla di fatto per due anni non è da escludere che ci siano ulteriori rinvii alla fine della politica di ‘quantitative easing‘, annunciata ma già peraltro rinviata nel passato recente. Il che ovviamente ritarderebbe l’auspicata svalutazione dell’euro rispetto al dollaro che dovrebbe favorire le nostre esportazioni.

Come sempre accade in questi casi siamo ancora nella fase di speculazione, avendo appena “digerito” i dati finali. E d’altronde, con le elezioni presidenziali che si avvicinano, si tratta solo di effetti limitati al prossimo biennio. Non ci saranno certo grandi riforme o contro riforme fino a quando sarà eletto il prossimo presidente. Qualcuno, prendendo in considerazione le migliaia di pagine di legislazione (primaria e secondaria) per la riforma dei mercati finanziari e l’Obamacare, potrebbe dire che è meglio così.

Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro

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